La poesia degli incontri
La stanza nella quale lavorano ha le stesse dimensioni della mia cucina. Io sto sulla soglia con l’aria di un’intrusa e la trovo piccola, ingombra, spoglia. Sono in piedi davanti allo specchio; riflessi di loro stessi con le braccia nude e traslucide. Soldati dalle differenze inequivocabili e insubordinati alle regole della quotidianità. Sento odore di gomma vecchia, cuoio, ascelle umide; di stoffa ed eccitazione. Mi tornano in mente le campestri delle superiori in cui somigliavano tutti a dei cavalli da corsa. Mi torna in mente la mia professoressa di scienze che ci consolava dicendoci che «i veri cavalli da corsa si vedono alla fine». Io sono ginnica, magra, un chiodo. Sono veloce e disarmonica, negli occhi spesso arrabbiata. Cerco un appiglio ed è lui.
A distanza di anni rimango convinta che un atleta, o pseudo tale, cerchi in un istruttore suo padre. Un groviglio di braccia che lo intersechino in una disapprovazione apparente. Cerchi di piacergli soprattutto se non gli piaci. Lo compiaci con un gancio destro, ottimo, per il quale lui ti dirà con tono sibillino: «ce l’hai». E tu, magra, un chiodo, domandi: «ce l’ho cosa?». Negli occhi di S intravedi un sorriso. Lo sa perché sei lì? Lo sa che tuo padre è stato te prim’ancora di essere se stesso? Che a sette anni ti camminava scalzo come un divo e t’impartiva formule di rigidità mentre tu respiravi adrenalina? Non eri arrabbiata, a sette anni. S tutto questo non lo sa, forse tuo padre nemmeno. Era un divo e adesso è soltanto scalzo, appagato dalla sua stessa precarietà.
Cominci l’incontro della tua vita, pensi al paradosso che vi si nasconde dietro. La vita è una sfida all’accoglienza nella quale non esiste vincitore. Ti scopri in uno specchio che non fa distinzione; il tuo riflesso sempre dietro l’angolo, incollato sulle facce di avversari tra cui sei una minoranza. «Mi devi colpire davvero, non per finta». Se fossimo nel mondo reale, la mia enfasi desterebbe scalpore: un uomo che mette le mani addosso a una donna. Ma non lo sanno che le minoranze si forgiano con forza maggiore per opporsi ai propri aggressori? Io e lui siamo uguali. Ha un figlio, quarant’anni, occhi verdi per finta, braccia grandi e sproporzionate rispetto al resto del corpo che è più molle. Ad oggi non ne ricordo neppure il nome. Ridiamo mentre respiriamo forte. «Vai!», mi urla papà dall’angolo della palestra, adesso una più grande perché S ha detto che “ce l’ho”. Prendo qualche colpo sul naso e lui si scusa. Gli fisso il petto anche se nello sparring son raccomandati gli occhi. Se li fissassi, vedrei una forma di esaltazione che non conosce nome. E’ il motivo che ci spinge a fare questo, una poetica fatta di sinistro – sinistro – gancio. La nostra danza si esaurisce una volta usciti da lì, sfiamma tra i dolori muscolari il mattino dopo dentro un ufficio o in macchina con i figli. Quando scrivo, penso a me come una pugile che lotta col proprio io nascosto dentro un vetro. Vedrei anche questo nei suoi occhi, se osassi guardare. E se lui guardasse, velato di sudore, vedrebbe un alcolismo precoce, forse la ferita di una moglie o l’abbandono. I miei passi cambiano se mio padre o S s’avvicinano; diventano più feroci, come la punta di una penna. Sto scrivendo di un parossismo che agli altri sembra inconciliabile. Posso essere una poetessa e una pugile, in un contrasto apparente di parole? Non lo sanno che in fondo sono la stessa cosa? Sinistro – sinistro – gancio; schivo una pessima metafora, ne affondo un’altra, più sincera, più veloce, col sudore che mi cola lungo la fronte, l’estasi di un’idea, dello scontro – incontro. Chi incontro se non me stessa mascherata da persone sintomatiche? Togliere i guantoni è come chiudere un quaderno. Sollievo, è finita. Sollievo, è andata bene. Ho compiuto uno sforzo per combattermi, ma poi mi abbraccio sempre. La me stessa che è in lui mi sorride, mi batte il guanto con cameratismo: «la prossima volta, più forte».
Muhammad Ali usava la penna per combattere fuori dal ring. Una minoranza privata della licenza pugilistica per via della leva e costretta a indossare un nome da “bianco”. Diceva: «vola come una farfalla, pungi come un’ape», scivolava in una forma di autoreferenzialismo che nelle interviste lo faceva somigliare a un pazzo o a un prete, e chissà che in fondo non siano la stessa cosa.
Hai visto, papà, come picchio forte professando delicatezza? Come divento una diva con la testa china e gli occhi fissi, sopra un foglio o dentro un ring?
Non vorresti mai andartene, alla fine dei giochi. Tutto quel che s’è consumato è un atto unico, un gesto di smisurata solidarietà.
Tanta fatica per un abbraccio. Allo specchio sorrido: ho scritto in segreto di te.
Francesca Giudici