Poesia dello scontro
È difficile dare un senso, nel tempo, a chi si è sempre stati. Abbiamo costruito un ponte, una congiunzione astrale tra persone che solo per caso ci somigliano. Sono più brutte, più belle, più tonde, più magre, indossano l’apparecchio e vestiti del mercato, scarpe di marca a metà prezzo. Camminano per i corridoi di una scuola, non cercano il senso, si sentono sopravvissuti anche se non sanno a cosa. Con lo sguardo vagliano possibilità: non hanno mai pensato di poter essere quello, non hanno mai pensato di voler piacere, eppure è un desiderio smanioso adesso. Non ci dormono la notte, se ne tormentano seduti su una sedia mentre fanno colazione. Mi trucco troppo? Oppure, forse dovrei iniziare a truccarmi. Indossano maschere così, senza sapere come se le siano fabbricate. E’ successo tutto troppo in fretta, era solo un’idea e adesso è una cosa che gli altri vedono e a cui solo i simili rispondono.
Mi conosci?
Ti chiedi anche se non l’hai mai vista.
Ti conosco?
Gli altri ti hanno dato una definizione che ingoi a fatica, sei per loro tante cose nelle quali a stento, tu, ti riconosci. E davvero è iniziato tutto come un gioco; nessuno di loro voleva. Adesso hanno formato un reticolo di silenzi e non sai mai che cosa dire. Vuoi soltanto essere giusta. Vuoi soltanto essere vista. Scrivi in segreto soggetti teatrali, ti riduci al frastuono di notte. Non cerchi nessuno nel tuo mondo fatto di incertezze; fumi tanto e non dovresti, ma poi pensi che non si dovrebbero tante cose… Le tue poesie dapprima rabbiose ora diventano tiepide, s’infittiscono di figure celestiali a cui neppure credi. Tutte le mattine una figura alata ti saluta con lo sguardo. Ti assicuri sempre che gli altri non vedano. La loro definizione di te stessa andrebbe in frantumi, e allora che faresti? Ce l’hai già pronta la scusa? Torni a casa e scrivi, reciti le preghiere di peccatori che sono solo bambini. Lo sei anche tu, eppure il disgusto della sporcizia già ti tocca, ti arrovella le viscere. Per la prima volta vorresti essere diversa, smettere di pensare alle cose giuste, smetterla di sapere sempre che cosa dire e optare, alla fine, per il silenzio.
Grideresti al mondo che ci sei, in qualunque stato, in qualunque assenza che rende la tua persona distinguibile. Non puoi dirlo ad alta voce o ti scoprirebbero, e questo in fondo ti rattrista. E dentro casa tua madre vede solo una creatura, un interstizio genetico tra ciò che le somiglia e dista invece di anni luce.
Ora ne sei convinta, sì, sei innamorata.
Scrivi tanto e ti vergogni. Di qualunque cosa. Hai preso da tuo padre il gene dell’insicurezza. Da tua madre soltanto la fretta di crescere. Cerchi simili che ti fanno paura, cerchi l’arte nelle persone che sanno, conoscono, e ne fanno il credo della giovinezza. Adesso hai qualcosa di cui parlare, abbatti una prima barriera. Tutta questa vita che sembra solo scontro, venirsi addosso, come rabbini di uno Shabat e bisbigliare segreti stretti nel sudore. Va bene così, ti dici. La scrittura fa bene. Ti sembra di accartocciare fogli che contengono il disegno di te stessa. E’ una collisione che gli altri non capiscono, non la capiscono nemmeno mentre boccheggi fuori dall’aula. La guardi nei corridoi e le chiedi: Mi salvi?. Lei invece tace, non ti conosce.
E va a finire che smetti. Che il lieto fine l’hanno fatto per i personaggi coraggiosi. Tu leggerai Rilke dietro una finestra e ti stringerai addosso il libro. Una nuova definizione per la nuova te stessa che sta nascendo.
Ma i parti sono sempre faticosi, così liquidi e sofferenti… Ti senti morire e pensi: è finita, ho taciuto troppo a lungo.
Stringi i denti e spingi, soffochi un rantolo mentre braccia velate di parole si appropriano di te. Ero io? Ti chiederai a distanza di anni, di fronte allo schermo di un computer. E realizzerai, tuo malgrado, di esser sempre stata lì; amante segreta di te stessa, neonata disuguale.
Francesca Giudici