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Nell’aria rimane l’eco di un grido di silenzio, lacerazione profonda e rassegnata. Rimarrà per parecchio. O forse no. Mi guardo intorno: buio, freddo, liscio. Provo a muovermi. Avverto la costrizione di uno spazio claustrofobico — sono circondata. Il corpo, nudo, poggia su una superficie dura e glaciale. Un liquido viscoso inizia a cadere su di me, accumulandosi sul fondo. Il livello sale — non posso muovermi. Lentamente raggiunge le gambe, i fianchi, il collo. Resisto alla tentazione di cercare aria e, docilmente, mi abbandono al suo volere.

Se pensate che qualcuno si alzi la mattina e decida di alcolizzarsi, siete su una strada mendace. L’alcol può entrare nella vita delle persone in punta di piedi o in maniera dirompente, ma ciò che fa la differenza è il perseverare. “Perseveravo nel piacere dell’andare in fondo alla tristezza, come un dispetto”, scriveva Fleur Jaeggy. E così faccio io oggi. Nella mia vita, l’alcol è cresciuto per quantità in modo quasi impercettibile; quasi impercettibilmente, come logica conseguenza, è aumentata la consapevolezza dei guai crescenti, dovuti alla sua smisurata assunzione. O forse sono soltanto diventata così abile nell’ingannare gli altri, da riuscire a ingannare facilmente anche me stessa, nel tentativo di anestetizzare una coscienza consapevole dell’uragano che stava arrivando. Ma, dopotutto, la compagnia peggiore per un alcolista è proprio quella della propria coscienza. È questo il vero baratro dell’isolamento. Impotente, incastrata nell’ordinarietà nauseante dell’esistenza, dentro a un mare di bottiglie vuote. I giorni si susseguono, più o meno velocemente, come in una perenne dimensione onirica. Mi sveglio al mattino senza aver veramente dormito, confusa, già sfinita e cerco di ricordare cosa ho fatto la sera prima e cosa devo fare oggi. Indosso la solita maschera, che tuttavia non cela il mio essere inquieta, e vado al lavoro. Qualunque cosa faccia, pensieri tormentati mi tengono compagnia, ma, più di tutti, è lui che chiama. Come un’onda impetuosa e continua percuote la mia mente, non mi lascia spazio, nemmeno quando sono costretta ad arginarlo, perché devo aspettare, devo nascondere il rovescio infernale della mia medaglia. Alle ore 18 l’agonia termina, finalmente. Il pensiero va subito alle scorte di “liquido”, e a quel supermercato — necessariamente distante tanto da casa quanto dal luogo di lavoro, così da non essere riconosciuta — in cui precipitarsi qualora lui non sia sufficiente. Ancor prima di entrare, l’irrefrenabile desiderio già si fa sentire, e l’incremento della salivazione va a sommarsi al tremito ormai onnipresente delle mani. In frigo c’è una bottiglia aperta: sorseggio. Questo era il bianco, ma sotto il lavello c’è il rosso: sorseggio. Inizio a cucinare. Quante volte usavo il Tavernello per preparare il risotto o l’arrosto e poi bevevo il rimanente? Quante volte facevo torte buonissime – a detta dei parenti  – ma nessuno sapeva che aggiungevo del rhum che poi, puntualmente, bevevo prima e dopo ogni impasto? È pronta la cena, e il vino “ufficiale” non può certo mancare. Poi scuse, sotterfugi, visite in cucina, fino a notte: tutti pretesti per poter raggiungere il mio unico fine. Una falsa lucidità, abilmente elaborata in anni di esperienza, mi permette di stare in piedi fino alle 23 e ogni sera mi stupisco sempre di più di quanto sia formidabile la mia capacità di ingannare. L’inganno è un’arte sottile, accuratamente studiata, intrinsecamente elaborata, da perseguire con costanza. Con il passare del tempo, diventa un meccanismo che mette radici e cresce morbosamente, facendosi strada in tutti gli aspetti della vita di una persona. 

Perfino quando ho intrapreso, più o meno deliberatamente, il percorso della riabilitazione — in seguito al ritiro della patente per guida in stato di ebbrezza — sono riuscita a ingannare me stessa e gli altri.

Se con i parenti è stato (ed è) relativamente facile, la sfida maggiore è stata – forse lo è ancora? quella con me stessa. Non so se fingessi di volermi disintossicare o se ci fosse qualcosa di più, di sincero, nel desiderio di volerne uscire. In silenzio, l’inganno ha risposto per me, e ha deciso che l’esito positivo degli esami era un’occasione per festeggiare, bevendo per intero una bottiglia di prosecco. Ma forse non era quello che volevo. In ogni caso quello che conta è che, grazie all’esito positivo, risulti “guarita” agli occhi dei parenti, anche se non perdono mai un’occasione per poter controllare le mie condizioni psicofisiche e andare alla ricerca di bottiglie nascoste in angoli remoti dell’appartamento. Per fortuna sono sempre molto attenta a nascondere tutte le prove durante i weekend e – pur non senza qualche difficoltà –  riesco a contenermi durante i pasti in loro presenza. Ma uno degli aspetti che più mettono alla prova la mia impassibilità sono le conversazioni con loro, permeate di frasi come “l’alcol ti trasforma, pensi che ti renda interessante e invece sei fastidioso e molesto, pensi che gli altri non si accorgano di nulla e invece capiscono che hai bevuto da come parli al telefono”, oppure “in Italia sono 8,7 milioni i bevitori a rischio e a causa dell’alcol muoiono 17 mila persone all’anno”, o ancora “è un fattore che impedisce lo sviluppo economico, rappresentando un ulteriore onere finanziario per la società: l’Italia spende ogni anno circa 25 miliardi di euro per gestire le conseguenze devastanti dell’abuso di sostanze alcoliche”. 

Penso a quelle frasi. Penso al mio percorso. Penso alla mia vita — un continuo perseverare, e così, anche in questi tetri soliloqui, vado avanti. Tuttavia, certe volte capita ancora che la disperazione mi travolga, assieme al senso di colpa, alla vergogna, all’odio, alla solitudine – talvolta così dirompente che mi attraversa affilata come una lama e ogni volta mi lascia a brandelli. E forse allora penso che il motivo per cui mi sento stremata e incapace, sia lui, che occupa tutte le mie energie e che mi lascia in balia del vuoto,  un enorme buco nero che suadente mi chiama: l’alcol, ennesima dimostrazione del mio incommensurabile egoismo.

Salgo al piano di sopra, vado in camera, apro la finestra, sono sul balcone. Quell’ipotesi, ora, non è più tanto illogica. La ringhiera è troppo alta. Torno dentro, scendo le scale e prendo una sedia dalla cucina. Risalgo. Ritorno di fuori. Posiziono la sedia vicino alla ringhiera. Mi guardo intorno. Buio. Luci delle insegne dei bar lampeggiano indifferenti — devono essere le tre di notte. In lontananza, il vocio di persone che ancora sono in giro. Magari sono ubriachi. 

Ho sete. Torno dentro, scendo in cucina e tiro fuori una Tennents dal frigo. Risalgo. Esco. Evito accuratamente di pensare a qualsiasi cosa. Mi concentro sui suoni della notte che ormai mi sono familiari e impiego tutte le mie energie per bere d’un fiato la birra. Mi fa bene. 

La testa, ormai, è una scatola vuota — il corpo, un burattino storpio. Mi fa mettere un piede sulla sedia, una mano mi aiuta e il burattinaio fa salire anche l’altro piede. Ora sono in piedi. Porto la bottiglia alla bocca cercando un goccio rimanente, ma aspiro solo vuoto. Inutile presa per il culo. La lancio nel vuoto e l’oscurità la inghiotte. Chissà se l’altezza sarà sufficiente, mi chiedo. L’ultima cosa che voglio è finire paralizzata.

Anna Lanfranchi

 

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