Poesia domestica
Casa mia ha sempre lo stesso odore, hai presente? Un retrogusto di gelsomino che si posa sulle mani, sotto la doccia, sopra forniture vecchie di una vita. Ripenso alle candele. A quelle ormai riposte nei cassetti. Alle luci sul mio davanzale e a quelle di fronte, distanti. Non sento niente se respiro. Non sento l’estraneità del momento mentre varco la soglia di casa. Quante cose abbiamo spostato? Il tavolo della cucina era in orizzontale o in verticale? Non me lo ricordo. Mi sforzo e poi mi contraddico. Più tardi che mai, abbiamo riposto le cose al loro posto. Tastato le consapevolezze. Hai portato via soltanto quello che ti appartiene: acqua pagata a peso d’oro, degli occhiali da sole, maglie dapprima tue, poi mie, adesso di nuovo tue. Una foto di me che sorrido al sole. Un’altra di te che mi dai da mangiare. Adesso mi è rimasta la poesia delle assenze. Non è una cosa semplice, ti dico.
La poesia delle assenze si chiama setole, dentifricio, coperte, mutande, libri vecchi, libri nuovi, luci al led, una pianta, quella canzone che non ascolti più, una scatola, un cassetto, una macchina da scrivere, carta carta e carta, un profumo, una stanza, tutte le stanze, acqua oligominerale, vino bianco, vino rosso, un tavolo rimasto storto, un televisore da mercato delle pulci, pasta secca, un lampadario, un alimentatore, carta da parati, un terrazzo, un affaccio.
La dinamica non è che la stessa: mi alzo, la mattina, e tocco tutto quello che è mio. Mi affido al caso del tuo disordine. Mi pensi sola che poi da sola non lo sono. Te l’ho detto in delle lingue sconosciute, che in verità l’amore mio è un’altra cosa. Tu cambi le vesti e ti spogli, passi da carnagioni olivastre a pelli eburnee cosparse di nei. Fumi tanto, fumi poco, per niente. Odi gli zuccheri e li ami. Prendi il caffè tutte le mattine e non ne sopporti l’odore. Ti piacciono i film e non li guardi mai.
Dentro casa mia ti siedo davanti. Le mura sanno soltanto di estate e polvere. Sento un fischio, tolgo la lanugine dai miei fogli di carta. C’è un ricambio generazionale persino tra di loro, alcuni diventano grandi e perciò fuori posto. Io non ci conosco. Quella cosa così preziosa che ho ce l’ho ad un palmo di naso da me. Adesso scrivo, eh. Non ti spaventare se non c’è dolcezza in quello che faccio. Certe cose ti spaventi a dirle, ma poi le dici, e allora passa. Ma dentro il mio foglio di carta rimane un’impronta, un’incrinatura inconfondibile che il mondo dei grandi si diverte a chiamare arte.
Non esiste luce del sole tra me e il mio vero amante; è uno scivolo grazioso che inonda le pagine, la mia rima è un orgasmo consonantico tra il corpo mio e l’assenza tua. Trasformo tutto in medicina, col tavolo storto che mi guarda adesso sola e mal riposta. Tu mi leggi da una pagina, ti ambienti come un pesce rosso tra cose dapprima vecchie, adesso nuove, forse veramente tue. Sono sempre state lì, anche se di me, lì dentro, non c’è mai stato niente.
E sui miei fogli impiastricciati di te, si poserà risoluta la polvere. Cercherò tra di essi come si cerca in un adulto il proprio figlio perduto; tu grande lascerai la casa, io socchiuderò la porta.
Francesca Giudici