Nota del Redattore: per evitare equivoci di sorta, dopo alcuni feedback avuti in seguito alle prime due pubblicazioni, specifichiamo come questa rubrica muova senz’altro da fatti reali, ma che molti eventi descritti in questo e nei precedenti articoli siano stati creati ad artem dall’autrice per un fine narrativo — e non rispondano, quindi, a eventi necessariamente occorsi nella storia personale dell’autrice.
L’ultima cosa che voglio è finire paralizzata. Con mano tremante sollevo delicatamente il calice, tenendolo a distanza. Scruto minuziosamente il liquido che galleggia al suo interno. Seguo attentamente la risalita delle bollicine in superficie. Guardo cautamente le impronte lasciate dalle mie dita sulla condensa del vetro gelido. Gli altri si stanno già sistemando. Resto completamente immobile. Vedo la mano avvicinarsi pericolosamente. Trattengo il respiro.
“Mi chiamo Anna e sono un’alcolista”.
Aprire certe porte è faticoso. Restare seduti è faticoso: fermarsi, ascoltare, raccontare, fidarsi. E poi fare ordine nella vita, nei ricordi, nelle priorità. Chiedere scusa. Perdonarsi. Volersi un po’ di bene. Capire di non essere i soli a sentirsi sbagliati, accettare di essere una dei tanti che si perdono.
Ma, soprattutto, rimanere sobri 24 ore. E poi altre 24.
Un giorno alla volta per settimane, mesi, anni. Passi brevi, frasi brevi. Parola, punto, altra parola. A guardare troppo avanti si rischia di perdere la direzione, perché alcolisti si resta, anche quando ci si è lasciati la bottiglia alle spalle, e questa è una prima verità.
Una seconda verità è che la dipendenza da alcol è una malattia — non un vizio, non una debolezza. Nell’immaginario collettivo l’alcolista è un vizioso o un debole, uno che vuole dare spettacolo o un essere spregevole. Molte persone non comprendono il motivo che porta a ridursi in condizioni pietose attraverso l’assunzione smodata di sostanze alcoliche, ma se si considera l’alcolismo come una malattia, ed è stata dichiarata tale dall’Organizzazione mondiale della sanità ormai da parecchi anni, tutto apparirà sotto una luce diversa e sarà possibile sostituire, all’idea stereotipata della persona che beve, l’immagine di una persona non da disprezzare ma di cui prendersi cura. Tuttavia, e questa è una terza verità, non c’è cura efficace a priori, se non ammettere di avere un problema e chiedere aiuto, anche se farlo è difficile — non è un caso se, degli oltre 8 milioni e mezzo di italiani che bevono troppo (dati Istat) le persone “in carico”, secondo l’Istituto superiore di sanità sono poco più di 73.000.
La prima volta che ho varcato quella porta — la più celebre per tutti gli alcolisti: quella del gruppo Alcolisti Anonimi — ero terrorizzata. Mi sentivo a disagio: provavo vergogna a trovarmi in un posto dove, una volta entrata, era certo agli occhi di tutti che fossi un’alcolista. Erano le 21:15 quando ho ricevuto il benvenuto da quella decina di persone sorridenti e piene di vita, ben diverse da ciò che mi aspettavo di trovare. Dopo due ore trascorse seduta accanto a sconosciuti che parlavano con serenità del loro problema con l’alcol e di come, attraverso il Programma di A.A., stavano facendo dei progressi verso una sobrietà serena, uscivo con un’insolita calma e un’irreale pace.
Così, dopo essere giunta a un passo dalla morte, trattenuta solamente dalla paura di non farcela ad andare fino in fondo, è iniziata la mia riabilitazione. Non so dove abbia trovato la forza di chiedere aiuto. So solo che, dopo averle confessato la mia condizione e non aver sentito di dover morire per la vergogna, è riaffiorata in me la consapevolezza di non essere sola ed è emerso un fievole desiderio di provare a vivere.
Mentre il mio pensiero rievoca quei giorni — i più difficili della mia vita — mi lascio andare dolcemente al flusso dei ricordi e mi vedo: immobile e impassibile sto affogando, ma, contro la mia volontà, una mano si tende per chiedere aiuto e lo riceve; il suo sostegno mi conforta, mi fido. Un’inattesa determinazione si fa avanti: ogni giorno mi racconto i sudati successi e le difficoltà, così da ricevere la linfa che mi permette di stringere i denti e far passare altre 24 ore.
Il destino vuole mettermi alla prova, sottoponendomi a una lunga sequenza di cene e ricorrenze, tutte rigorosamente traboccanti di alcol: ogni volta, il terrore mi pervade; ogni volta, cerco di fare il pieno di fiducia — e, incredibilmente, ad ogni “NO” detto al bicchiere segue una soddisfazione enorme. Mi dico, banalmente, “se voglio riesco” e con questo pensiero affronto le varie occasioni.
Gli amici inizialmente ridono, non capiscono, ma poi si adeguano e brindano mentre io bevo aranciata. Sono impressionata da me stessa: ero convinta di essere debole, invece ora sento la possibilità di un’altra vita. Comincio a credere che dentro di me ci sia qualcosa in più di un enorme buco scavato nel vuoto; comincio a essere pienamente consapevole della vita che vorrei lasciarmi alle spalle. Questo nuovo modo di affrontarla mi sta cambiando dentro e fuori e il fatto che anche gli altri lo notino mi compiace e mi dà vigore. Ho di nuovo coraggio e sono contenta di me. Ragiono bene, mi ricordo le cose, l’umore è alto. Non so più quanti aspetti di me sto scoprendo e che non ricordavo più di avere: passioni, interessi, amicizie… Ma non è facile — sento il male che mi segue, si nasconde nella mia ombra e non mi lascia mai. Imparare ad affrontare le difficoltà della vita senza l’ausilio di “stampelle chimiche” è faticoso; ricostruire un’intera intelligenza emotiva e relazionale è arduo; cercare di volersi bene ogni giorno è un’impresa colossale ed estenuante che si protrae per tutta la vita. Se è vero che alcolisti si rimane — uno degli errori più comuni è quello di ritenersi “guariti” — è anche vero che è possibile rimanere sobri e tutelarsi da possibili recidive.
I metodi sono tanti: un esempio può essere quello di riconoscere lo stato di ansia e nostalgia scatenato dall’assenza della sostanza e mettere in campo tutte le strategie possibili per disinnescarlo: gestione del pensiero e spostamento dell’interesse, mindfulness, arteterapia… Ognuno deve trovare il suo metodo, tuttavia dall’esperienza di chi ne è uscito si possono trarre spunti utili e soprattutto replicabili. Se vogliamo scrollarci di dosso l’immagine dell’alcolista lacrimoso o paralizzato dalle proprie insicurezze ed essere artefici di un progetto spirituale e allo stesso tempo concreto, è necessario diventare responsabili e assumere un ruolo attivo nei confronti del territorio e delle persone, con una attenzione particolare verso i soggetti più fragili, per poter costruire una società democratica che, invece di rinchiudere e allontanare le paure e i pericoli, tuteli il benessere dell’intera collettività. In fondo, dare e ricevere aiuto è ciò che distingue una società civile dalla massa di consumatori inscatolati ognuno nella propria gabbia di egoismo in cui il mondo del capitalismo avanzato ci sta trasformando. Vale la pena di rinunciare qualche volta al nostro io, cercare di essere disponibili nei confronti degli altri e sviluppare sincerità, umiltà e tolleranza.
Un tintinnio richiama l’attenzione e bruscamente ritorno nel qui e ora: Federico ha finito di parlare. È stato un bel discorso, profondo, toccante, mi pare di ricordare. Vedo molti che si asciugano gli occhi di nascosto, altri con le guance rigate di lacrime. Io non ho la minima idea di quello che c’è sul mio volto — davanti agli occhi, un’immagine sola occupa tutta la mia visuale: io, lei e poche parole: “Poi è più facile. Ogni giorno diventa più facile. Ma devi farlo tutti i giorni. Questo è difficile. Poi diventa più facile.”
Non potrò mai ringraziarla abbastanza per aver creduto in me nel momento più difficile della mia vita. Ho ancora il calice in mano. Molto lentamente mi risiedo. E riprendo a respirare.
Rientro a casa dopo il lavoro. Getto la borsa sul divano e vado dritta in camera. Il balcone è rivolto ad ovest. Non smetterò mai di essere grata per questo. Apro la finestra e mi lascio inondare dalla luce calda del tramonto. È bellissimo. Arancio e rosa che sconfinano nel rosso, sopra azzurro. Ogni volta mi sa stupire. Respiro aria, sole e cielo. Sono 13 mesi che non bevo.
Anna Lanfranchi