“Parlare in continuazione non significa comunicare” — dal film Eternal Sunshine of the Spotless Mind
L’altro giorno ho rivisto un amico con cui non uscivo da tempo, abbiamo parlato a lungo, ci siamo raccontati frammenti di cose successe ed emozioni dell’ultimo periodo. Tornata a casa ho provato una sensazione di amarezza, credendo che avrei potuto usare le mie parole in modo diverso e che qualcosa fosse andato sprecato nelle conversazioni.
Complici la mia incapacità di esprimermi come vorrei e le aspettative sempre troppo alte, non avevo considerato che nel bel mezzo di una conversazione con qualcuno, non sappiamo mai cosa aspettarci: anche quando proviamo a programmarle, ripetendo nella nostra mente frasi, immaginandone lo sviluppo, per arrivare pronti al momento, i nostri sforzi sono in gran parte vani.
Forse abbiamo troppa fiducia nel potere del linguaggio o nella nostra abilità nel dosarlo e non prendiamo in considerazione la natura reciproca della conversazione, il cui esito non dipende solo da noi. Il linguaggio è in effetti uno strumento potente e versatile: singole frasi
hanno cambiato il corso degli eventi e può all’occorrenza esulare dal campo dell’utilità per diventare arte, ma soprattutto è lo strumento che utilizziamo per stabilire connessioni con gli altri. Proprio un’opera d’arte ci pone di fronte ai suoi limiti e contraddizioni: come il celebre dipinto di Magritte che raffigura una pipa, la quale, in realtà, su suggerimento dell’artista stesso, non è veramente una pipa; così, parallelamente, anche la parola “pipa”, non è l’oggetto pipa. La parola non corrisponde all’oggetto, perchè linguaggio e realtà sono due dimensioni distinte e non sovrapponibili e, portando questa affermazione alle sue più estreme conseguenze, il linguaggio non potrebbe più descrivere nulla, dato che nulla di ciò che diciamo corrisponde alla realtà. La soluzione è il compromesso: accettiamo che le nostre parole siano collegate agli oggetti che ci circondano, agli avvenimenti, alle nostre emozioni, pur consapevoli del margine di imprecisione in questo collegamento. È importante dunque scegliere bene le nostre parole per accorciare il ponte tra noi e la realtà, cioè per descriverla il meglio possibile, dato che una descrizione precisa è imprescindibile nella comprensione di un fenomeno ma anche, viceversa, questo deve essere ben compreso per essere descritto. Sembra complicato? In effetti lo è.
Diventa tutto più difficile quando ci rivolgiamo agli altri o a noi stessi. È faticoso costruire un legame attraverso le parole, perché non siamo sempre disponibili a raccontare e raccontarci.
Capita certe volte di non sapere cosa dire o come dirlo, di fraintendere gli altri o di essere fraintesi ed è perfettamente comprensibile. Questa difficoltà può anche essere cronica o, si potrebbe dire, patologica quando non riusciamo ad esprimere ciò che vorremmo dire, perché forse il concetto non è veramente chiaro nemmeno a noi, rendendo ogni interazione con gli altri difficile e frustrante.
Mi trovo spesso in situazioni simili: i pensieri nella testa si fanno confusi, oppure ho le idee chiare su cosa dire, ma sento che queste stesse cose non hanno significato, che non portano da nessuna parte sul piano relazionale: potrei parlare con una persona per ore, ma sentire che il discorso non è veramente andato da nessuna parte.
Forse non dovremmo pretendere di avere una parola giusta per ogni cosa, perché non siamo nati tutti poeti; nè possiamo pretendere che ogni cosa che diciamo vada dritta al cuore dell’altro, perché non siamo tutti empatici. Credo che l’incomunicabilità sia parte imprescindibile della nostra esperienza quotidiana e che debba essere accettata come tale, dunque non come un problema, ma come una sfida da accogliere per non stancarci mai di cercare qualcosa di nuovo su di noi e su ciò che si trova attorno a noi.
Solo conoscendo possiamo accorciare la distanza tra noi stessi, la realtà e gli altri e dare così un po’ di senso al nostro piccolo mondo.
Nicole Cornaggia