L’amore, unica cura
Le tue dita.
La mia bocca.
Liquidi eburnei e aurei a un tempo.
Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie
Dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via
Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo
Dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai.
Le tue labbra.
I miei occhi.
Fuochi di paglia bruciano, levigandosi vicendevolmente.
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore
Dalle ossessioni delle tue manie
Supererò le correnti gravitazionali
Lo spazio e la luce per non farti invecchiare.
Le mie dita.
La tua bocca.
Salivazioni si incastrano, incrociandosi strettamente.
Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza
Percorreremo assieme le vie che portano all’essenza
I profumi d’amore inebrieranno i nostri corpi
La bonaccia d’agosto non calmerà i nostri sensi.
Le mie labbra.
I tuoi occhi.
Cristalli di lacrime e sudore in un sol respiro.
Tesserò i tuoi capelli come trame di un canto
Conosco le leggi del mondo, e te ne farò dono
Supererò le correnti gravitazionali
Lo spazio e la luce per non farti invecchiare.
Quattro immagini maldestre. Quattro quartetti di versi indimenticabili. Alternati, vicendevolmente, come parole e strutturazione.
“Ti piace proprio rompere la quarta parete, eh?” — sento mamma sussurrare.
“Io mi dico è stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”, le risponde papà.
In mezzo, io.
Sospeso. Tra realtà e finzione. Eterno flusso di coscienza. Punti, virgole, punti e virgola, lineette. Sospensioni arbitrariamente sospese con arbitrio in un vortice d’ineliminabile falsità. Parole casuali, sgorganti — o forse calcolate, ma esondanti. Proietto immagini nell’Aldilà — 110 bpm, 30 e Lode; 106 bpm, un abbraccio — mentre sogno sogni eterei ed eternamente eternati — ricerca stilistica incomprensibile, ineliminabile ancorché intelligibile.
Sarà come sarà, se sarà vero.
Sento colpe grondare da un cuore piangente. Struggenti stille, istantanee, violentano il volto. Visi uccisi da lacrime emergenti, esclamative e interrogative a un tempo. Proposizioni causali e finali insieme, eterna sconfitta del dualismo filosofico. Dall’alto verso il basso, parole calcolate, esondanti — o forse casuali, sgorganti. Risuonano gridi dall’Aldiquà — strilli di neonato, paure; sangue dal cuore, amore — evocando spettri spettrali e infinitamente ricercati — identità formale conoscibile, sostituibile eppur inintelligibile.
Sarà come sarà, e mi vedrai davvero.
Due flussi di coscienza appena accennati. Due paia di versi incancellabili. Alternati, vicendevolmente, come parole e strutturazione.
“Il tocco supremo dell’artista — sapere quando fermarsi.”, inferisce il Maestro.
Al di sotto, io. Umile raccoglitore di deduzioni. Sognatore dissennato di un Amore ideale, costante, brillante. Realista ostinato su di un letto rinascente, attraente, avvilente. In un eterno idillio — chissà quanto leggibile, chissà quanto udibile — guidato da Parvati, Dea Scrittura pudicamente seduta su un Everest appena visibile, e certo non scalabile.
Ti salverò da ogni malinconia, perché sei un essere speciale.
Quando apro gli occhi sono le 16:33. Contrattiamo velocemente sull’ora alla quale puntare la sveglia. L’ora è arrivata — 17:07. Quando riemergiamo l’orologio urla: 17:47. Doccia. Veloce. Insieme. Baci febbrili trovano corpi febbricitanti.
Sapone. Acqua. Cura. Lingue si incastrano, tra cuspidi e odori.
Quando apro gli occhi sono le 03:33. Decidiamo insieme, in sogno, il momento nel quale parlarci. L’ora è arrivata — 07:51. Quando apriamo gli occhi il telefono sussurra: Amore.
Sorrisi. Distanti. Insieme. Proiezioni d’alloro su volti sgargianti.
Abbracci. Stretti. Cura. Sogni d’avorio in sguardi inebrianti.
Mi volto, di nuovo. Mi giro, di scatto.
Ti guardo, ancora. Ti vedo, solo allora.
Penso che l’Amore sia l’unica cura di esseri mancanti, originariamente carenti. Esseri senzienti, inequivocabilmente sensibili. Esseri deboli, precipuamente friabili — frangibili, fragili.
Penso che l’Amore sia voluttà straboccante, confusa con liquidi ben più aurei che eburnei. Desiderio aggrovigliato tra fuochi di paglia ardenti e salivazioni incastrate. Stille lacrimevoli e difficoltose, emesse da un unico respiro.
Mi volto, ancora. Ti guardo, solo allora.
Mi giro, di nuovo. Ti vedo, di scatto.
Penso che per te ci sarò sempre. Sempre e per sempre, dalla stessa parte.
Penso che noi varrà nell’infinito, quell’infinito immenso in cui s’annega il pensier mio.
E se il naufragar ti è dolce in questo mare, Amore, ascolta.
Ascolta quella voce flebile — appena accennata — che della vecchiaia ha solo la saggezza.
Ascolta quella voce fragile, poggiata — anzi, appena accomodata — su una musica eterna, accolito di un’orchestra promanante un unico respiro, un respiro chiamato divinità.
Ascolta quella voce frangibile, pronunciata pian piano, che, con cuore spezzato e battito accelerato, guardando molto più in là dei girasoli nei tuoi occhi, ti sussurra: io sì, che avrò cura di te.
Federico
Grande inno all’amore. Fisicità, sentimento, trasporto, forma, materia, sostanza.
Mi piace. Per certi aspetti e in certi tratti questo componimento ha la forza dei lirici greci: genuini, sanguigni.
Ecco Saffo;
«Pari agli dèi mi appare lui, quell’uomo
che ti siede davanti e da vicino
ti ascolta: dolce suona la tua voce
e il tuo sorriso
accende il desiderio. E questo il cuore
mi fa scoppiare in petto: se ti guardo
per un istante, non mi esce un solo
filo di voce,
ma la lingua è spezzata, scorre esile
sotto la pelle subito una fiamma,
non vedo più con gli occhi, mi rimbombano
forte le orecchie,
e mi inonda un sudore freddo, un tremito
mi scuote tutta, e sono anche più pallida
dell’erba, e sento che non è lontana
per me la morte.
Ma tutto si sopporta, poiché …»
e Anacreonte
«Crudele fabbro, Amore, mi ha scagliato
l’ascia, di nuovo,
e mi ha tuffato in un torrente gelido.
E io amo e non amo
e più non so se la mia mente è mia
o non sono più in me»
Gran cosa l’amore!!
Luciano
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