Alzi la mano chi ricorda la prima scena di sesso vista in tv. Avevate quanto, dieci anni? Forse persino di meno. Il panico negli occhi di vostra madre che impreca sottovoce e si appresta a cambiare canale o che, nel più coraggioso dei casi, vi lascia osservare passivamente senza spiegare bene che cos’è. Un mutismo precoce che vi rimarrà impresso nel “sistema”, assieme alla domanda che nella vostra innocenza vi tormenterà: era reale?
Adesso siete grandi, e nonostante alcune dinamiche sul set siano chiare più o meno a tutti, la fascinazione di determinati argomenti sembra esser dura a morire. Questo dipende, forse, dai film in questione e dal loro livello di veridicità. A volte tanto atteso, come nel caso di “Cinquanta Sfumature di Grigio”, altre volte sorprendente e inaspettato, come in film indipendenti e dalle firme semi sconosciute, il sesso ci mette sempre di fronte ad una realtà; sta al modo in cui lo si tratta svelare quale, tra le tante, essa sia. C’è chi coraggiosamente lo trasforma in virtuosismo e feticcio, come Gaspar Noè, e chi lo utilizza per sensibilizzare o dare spessore alla propria produzione. C’è chi lo vorrebbe ma non può, ostacolato da clausole di nudity rider che proteggono gli attori da scene troppo spinte, e chi si presta totalmente per quello che in fin dei conti il proprio lavoro è. Che sia in un film o in un telefilm, poco importa; da sempre, le telecamere, si aggirano in un mondo fatto di strategia e consenso in cui la massima riuscita sta in una finzione eccezionale. Ci sono attori che definiscono le scene “divertenti” o “eccitanti”, come Hugh Grant, ed altri che si trovano imprigionati in una tirannia registica come le giovani protagoniste de “La vita di Adele”.
Ma allora perché insistere così tanto sull’argomento, se risulta difficile da incanalare in una sola accezione?
Forse perché da sempre, la natura di un film, si pone l’obbiettivo di scavare all’interno dei propri spettatori e creare ponti empatici tra verosimiglianza ed incredulità. Il “naturalismo” cinematografico ha intenzione di svelare quello che si cela nella psiche dello spettatore. Un’azione pretenziosa che raggiunto l’obbiettivo ci porterebbe a dire: sembrava così reale, che per un attimo ci ho creduto davvero. Sono comunque rari i casi in cui, una scena di sesso, avviene sul set. Spesso, come nella dilogia di Lars von Trier, “Nymphomaniac”, si parla di scene reali ma girate da controfigure. In altri casi, come nella clamorosa fellatio di Chloe Sevigny in “The Brown Bunny”, parliamo di scene girate a scatola chiusa e con i rispettivi partner di allora. Ma di una cosa siamo assolutamente certi, e cioè che il forte impatto di una scena del genere non passa inosservata. Nelle promozioni del film, ormai pronto al suo ingresso sul grande schermo, gli attori si vedono accerchiare dai giornalisti che ribattono sempre sugli stessi quesiti: com’è stato girare la scena con il suo co-protagonista? Mi parli delle scene di sesso all’interno del film, che cosa ne pensa? A quel punto, dietro il sorriso partecipativo dell’attore, s’intravede l’espressione di chi sente che dei centocinquanta minuti del proprio film, non è stato colto che quel minuscolo spezzone in cui i protagonisti copulano appassionatamente. Ma se da un lato il sesso può avere una funzione epistemologica e di ispessimento, dall’altro non sono rari i casi in cui ci troviamo di fronte a realtà osannate che deformano l’immaginario degli spettatori. Dal proposito di sensibilizzare su tali tematiche, nascono giovanissimi prodotti come “Sex Education” e “Euphoria”, che non si tirano indietro dal parlare di sesso per quel rappresenta davvero. Al di là della sagacia del primo, e dell’a tratti disturbante indagine psicologica del secondo, si cela infatti la volontà di smascherare un sesso spesso demonizzato e di stampo patriarcale, nel quale la pornografia la fa da padrone. L’iniziazione al sesso, infatti, avviene nella maggior parte dei casi attraverso errati canali d’informazione che diseducano e rafforzano l’idea della “donna vittima”, sottomessa al piacere dell’uomo. Una visione straniante di ciò che un amplesso rappresenta davvero, e che spesso dipende dall’ostilità alla sensibilizzazione tra le mura domestiche e tra le istituzioni, nel quale il sesso è trattato con freddezza e senza reale volontà educativa. Per non parlare poi di quello omosessuale, che da sempre rimane uno dei più grandi tabù istituzionali, la cui mancanza d’informazione toglie ai giovani la possibilità d’imparare, e, soprattutto, di proteggersi.
Ma di cosa parliamo quando parliamo di pornografia? E cosa lo rende così diverso dall’erotismo cinematografico?
Sin dalla nascita del cinema, nel lontano 1895, le prime proiezioni pornografiche hanno trovato il proprio canale di distribuzione sotterraneo resistendo a leggi contro l’oscenità che le volevano proibite. Una storia ben diversa, se ci pensiamo, dal normale andamento della filmografia che si occupava di mostrare spezzoni di quotidianità per sbalordire i propri spettatori. Da sempre stigmatizzata e vista in malo modo, la pornografia si è protatta fino ai giorni d’oggi, riscuotendo maggiori consensi e rispettabilità, e approdando in ultimo luogo sull’internet.
Il lavoro del porno-attore, che sembrerebbe distante dalla recitazione del grande schermo, non è così diverso. Ciò che cambia è certamente il fine e il fatto che, come tutti i prodotti del mercato, la pornografia risponde all’esigenze dei suoi consumatori. Oltre all’infinità di categorie proposte dal calderone dell’internet, ciò che colpisce davvero sono le differenze tra la pornografia comune, fortemente occidentalizzata, e quella orientale. Dal 1907, infatti, in Giappone, il possesso e la distribuzione di prodotti pornografici può essere sanzionato o addirittura punito con la detenzione. Una realtà che certamente stordisce rispetto all’uso e alla graduale normalizzazione che invece ha acquisito in occidente. Ancora più sorprendente è il discorso della censura, che nei prodotti orientali vede la pixelizzazione dei genitali – spesso sia maschili che femminili – ma la possibilità di rappresentare scene di violenza come stupri e messa in schiavitù. Sembrerebbe dunque che la proibizione, intesa come tale e opprimente, altro non faccia che sollecitare lo sfogo in ambiti ancora più controversi e fortemente discutibili. Un altro dei luoghi comuni più diffusi vede poi l’uomo come principale consumatore di pornografia mentre la donna totalmente disinteressata al sesso. Stando alle ultime statistiche della famosa piattaforma “Pornhub”, però, le utenti donne sarebbero in aumento. Che ciò sia dovuto alla graduale normalizzazione della pornografia o alla nascita di nuove categorie – comunque in netta inferiorità rispetto a quelle destinate al genere maschile – non sta a noi dirlo. Quel che sappiamo è che il fenomeno del “soft porn”, o del porno per donne, è tutt’ora in crescita e trova tra i suoi maggiori esponenti il volto di Erika Lust, giovane regista e produttrice svedese che da qualche anno a questa parte è impegnata nella produzione di una pornografia paritaria e al femminile.
Resta comunque importante tenere a mente che lo scopo del cinema e della pornografia non è quello di educare. Il primo si pone l’obiettivo di rappresentare, il secondo di eccitare. Le due cose, ovviamente, non è detto che non vadano di pari passo, ma sono certamente distanti da quello che nella vita reale il sesso dovrebbe essere. Parlare con il partner, condividerne il piacere e accertarsi del suo consenso, è sicuramente il modo migliore di introdursi al sesso senza che questo perda di spontaneità.
Da che l’uomo esiste, infatti, guardare e vivere sono due cose ben distinte. Tracciarne il confine ultimo non sta che al giudizio dello spettatore.
Francesca Giudici