Il dolore peggiore che un uomo può soffrire: avere comprensione su molte cose e potere su nessuna. — Erodoto
La sofferenza, quando ti sorprende, è lacerante. Ci si contorce dal dolore tutto d’un tratto, senza che, un solo istante prima, ci si aspettasse di provarlo.
È senz’altro vero — e cosa di quel che ha scritto non lo è, del resto? — che, come sentenziava Pessoa, “ci sono navi dirette verso molti porti, ma nessuna verso dove la vita non è dolore”. In un ideale completamento della prospettiva pessoana, Marie von Ebner-Eschenbach — importantissima autrice austriaca — sosteneva che “il dolore è il gran maestro degli uomini. Sotto il suo soffio si sviluppano le anime.”
Quel che del dolore distrugge l’animo umano, però, è indubbiamente il suo giungere inatteso. Ci sono dolori enormi dai quali si riesce a uscire perché, in quanto attesi, vengono processati dalla mente umana come logici, giusti, comprensibili; e ci sono inezie dappoco che, in quanto imprevedibili, gravano sull’animo umano, appesantendolo costantemente, fino a trasformare l’inezia in sofferenza — lancinante perché illogica, inaccettabile perché ingiusta, spaventosa perché incomprensibile.
Altro tratto tipico della sofferenza umana è la vanità di chi la soffre — e Honoré de Balzac, non esattamente il primo venuto, lo sapeva bene, quando in una sua opera domandava: “non sai che ognuno ha la pretesa di soffrire molto più degli altri?”. Chi soffre, sempre e comprensibilmente, ritiene di star soffrendo sempre più, e tende a dimenticarsi che, al mondo, è verosimile che qualche altro miliardo di persone stia soffrendo altrettanto, e talvolta molto di più — laddove questo “di più” non è, ovviamente, un giudizio di natura assiologica, ma solo un quantificatore del numero e del tipo di sofferenze che a ciascuno di noi è riservato: mentre un giovane occidentale può, più che legittimamente, soffrire per uno stato di costante disoccupazione, un giovane africano può ritrovarsi con una lancia in un occhio e dover risalire il deserto da cieco, tanto per fare l’esempio di un ragazzo da noi intervistato.
Il dolore, dunque, isola. Il dolore riporta l’uomo a uno stato di costante solitudine, di ancestrale lontananza da tutto e tutti, in un hikikomori senza nome e senza fine. Il dolore — se improvviso, inspiegabile, inaccettabile — è un taglio. Una ferita sgorgante anche dopo la sua cicatrizzazione. Un ineludibile grido che si alza verso il cielo, in un eterno dondolio tra quegli apici e quei grevi bassifondi chiamati “noia”.
Il mondo, questa entità generica e inconoscibile, della forza del dolore se n’è ricordato in questi mesi. Prima in Cina. Lontano, sembra. Poi in Italia. Per noi, niente di più prossimo; per gli altri, un allarme significativo. E, di lì, ovunque. Un nemico che abbiamo il bisogno di indicare, nonostante la sua inconsistenza, ci ha messo in ginocchio. Ci ha chiusi in casa. Ci ha confinato, facendoci scontrare con noi stessi.
Chi scrive ora, in una favola ambientata altrove, aveva auspicato un servirsi, da parte degli uomini, di questo dolore collettivo — e, di lì, un riscoprire i valori che davvero ci connotano: il rispetto, l’attenzione verso i pericoli più grandi e lontani da noi, la gentilezza reciproca, l’importanza della salute del pianeta (oltreché di chi lo abita), e così via. Ma, appunto, si trattava di una favola, con un titolo che bene esplicitava come si trattasse d’un auspicio e poco più. Nella favola, però, una sola cosa era certa: che lo spazio che accoglieva la favola, creato dal suo autore e ospitante tante altre anime, sarebbe stato sempre a disposizione di autori e lettori per dare una prospettiva nuova, diversa, coraggiosa.
16 agosto 2020. Le 23:55. Sono sul profilo Fb di Francesca Giudici, un’autrice esterna che poche settimane fa ha deciso, dopo mia richiesta, di entrare in redazione. Non ricordo quanti amici abbia, e domani esce il suo articolo. Uno dei più belli che io abbia mai pubblicato su Bottega. Uno straordinario intreccio di cinema, sessualità, pornografia, con una prospettiva che abbraccia tanto la ricostruzione storica quanto l’opinione personale di Francesca. Scorrendo, vedo che i post precedenti — quelli riferiti alla rubrica sulla poesia con la quale, il mese prima, aveva esordito — non ci sono. Stranito, le invio un messaggio per chiederle come mai. Spengo la luce.
17 agosto 2020. Le 10:10. Francesca ha risposto che sì, i post non ci sono più, ma no, non per sua decisione. Cerco di capire come mai e, senza nemmeno volerlo, finisco sulla pagina Fb del nostro blog. I post dal 23 giugno in avanti sono stati rimossi. Non so perché. Non ne vedo il motivo. Inizialmente penso a un bug, e riavvio l’applicazione. Niente. Provo a fare un post con il link dell’ultimo articolo — fra l’altro, un mio articolo: Fluidificare, un testo complicato anziché no, che si poneva l’arduo compito di mediare tra la tensione all’infinito portata da Eros e la radicale banalità degli umanoidi, così evidenziata da Thanatos. Niente. Non ancora arresomi a un’evidenza inspiegata e inspiegabile, agisco sui pulsanti di condivisione di Fb presenti sotto gli articoli del nostro sito. Lì, leggo poco più di una riga: “non è stato possibile inviare il tuo messaggio per la presenza di contenuti segnalati come offensivi da altri utenti di Facebook”. Mi si gela il sangue. Non capisco. Non capisco cosa (pubblichiamo articoli scritti e illustrati da noi di stampo, si spera, culturalmente interessante), come (non ho ricevuto nessuna notifica da Facebook, e la stessa sezione di Facebook che ratifica la correttezza della pagina, per ironia della sorte, recita: “la tua pagina non presenta limitazioni o violazioni“) e chi (qualcuno che odia me o una persona della redazione può certo esistere, ma non vedo perché colpire proprio il sito) abbia fatto tutto questo. Insomma: non mi capacito. Il dolore non arriva subito. Si presenta qualche ora dopo. Riprovo, testardamente, una condivisione. Niente da fare. A quel punto, non ho più alternative: lacrime su lacrime. Dopo le lacrime, però, la battaglia. Non può finire così, mi dico. Partono giorni frenetici, del tutto insostenibili, che mi portano, per fare un solo esempio, a essere al telefono (acceso una media di 15 ore al giorno) con un contatto che lavora per Facebook mentre davanti a me si staglia La scuola di Atene dei Musei Vaticani, in tutta la sua abbacinante bellezza. E, come spesso capita — e come Bukowski profetizzava, con quel “più capisci certe cose, e più non vorresti capirle” — quando capisco, tutto crolla. La segnalazione di un anonimo, a quanto pare, ha attivato un algoritmo di sorveglianza più stretto di altri. L’algoritmo rileva due violazioni: 1) l’immagine di Fluidificare, che infatti abbiamo dovuto rimuovere e sostituire con quella attuale, follemente definita “pornografica”, proprio su quel social finito nella bufera per sdoganare immagini di ogni tipo e noto per il suo potere censurante; 2) una mancanza di autenticità nel contenuto, per cui nella nostra descrizione precedente non compariva la parola “sessualità”. Insomma: se io amministro una pagina inneggiante al fascismo e nella descrizione scrivo un’ode al buon Benito che tanto bene ha fatto all’Italia, è tutto okay, perché il contenuto è autentico; se, invece, gestisco una pagina che unisce giovani e cultura, se nella descrizione mancano alcuni temi che trattiamo — anche se non capisce in che modo la parola “cultura” non li contenga tutti —, siamo inautentici. Offensivi. Da bannare. Segnalare. Rimuovere. Cancellare.
E così, infatti, è successo. Di lì, una serie di iniziative: continuiamo con le pubblicazioni nonostante la mancanza dei social, e incredibilmente le visualizzazioni si moltiplicano; gli appelli dei lettori si sprecano; i messaggi di vicinanza non si contano nemmeno, da quanti sono. Alla fine di agosto, dopo una serie di soffertissime notti, decido: a settembre solo due articoli, di aggiornamento e trasparenza per i nostri lettori. Più lunghi del solito, più densi, magari meno digeribili, ma di vitale importanza. Le rubriche, dico ai miei autori, le presentiamo sui social, insieme a dei post a tema sulla nostra situazione; da ottobre a dicembre, ripeto loro, facciamo l’ultimo tentativo: portiamo le nostre rubriche, vediamo i numeri, e proviamo a risolvere il problema. Poi, se la situazione sarà stagnante, dovremo considerare tutto. Compresa la chiusura. Dopo Marco Cappato. Dopo Mina Welby. Dopo Antonio Padellaro, Peter Gomez, Gianni Canova, Erri De Luca, Walter Siti, Gianfrancesco Turano, Francesca Diotallevi, Filomena Gallo. Dopo 43 interviste, più di 20 rubriche, oltre 30 ragazzi coinvolti, quasi 4 anni e circa 70mila visualizzazioni. Dopo tutto questo, e prima di tanto altro. Prima di un Concorso Poetico con giudici di enorme spessore. Prima di collaborazioni con teatri, cinema e musei di Milano. Prima di presentazioni di libri in pubblico. Prima di altre interviste con nomi talmente enormi da apparire lunari, irreali — solo per far capire cosa intendo: tra questi, c’era un premio Oscar.
Mancano quindici giorni al prossimo articolo. Diciassette-diciotto ai primi di ottobre, quando partiranno le (ultime?) rubriche dei nostri autori. Circa tre mesi al bilancio definitivo. A Facebook, inutile dirlo, abbiamo mandato già 4 segnalazioni. Ovviamente, visto che da noi non guadagnano niente, nessuna risposta. Abbiamo rimosso l’immagine di Virginia. Abbiamo modificato la descrizione. Stiamo provando a fare quello che praticamente nessun altro blog, in una situazione simile, penserebbe possibile: sopravvivere. Per dimostrare una volta di più che Kahlil Gibran, come su molte altre cose, aveva ragione, e che se “le anime più forti sono quelle temprate dalla sofferenza [,] i caratteri più solidi sono cosparsi di cicatrici.”
Federico
Capisco e condivido il tuo dolore. Non dispiacere: dolore, dolore e dolore. So come lavori, quale è la tua passione e il tuo puntiglio e quanto ci tieni a restare sempre entro i limiti del rispetto di tutti e di tutto.
Non voglio dire “viviamo in un mondo bla bla, in cui i social bla, bla, bla…”.
Resto dell’idea che le cose non capitano mai senza una volontà precisa, umana, che le faccia accadere.
La censura non è tanto un algoritmo quanto qualcuno che ha voluto ed esercita questo algoritmo per interesse.
Il problema di questo stato di cose postdemocratico è stato acutamente studiato da Colin Crouch in POSTDEMOCRAZIA del 2003.
Ripubblicato ed ampliato nel 2020, Postdemocrazia dimostra come l’algoritmo (dietro cui ci sta l’omino e i suoi pupari) è una seria minaccia per le libertà individuali. Questa nostra condizione non è più la democrazia di Pericle: mentre le esigenze politiche e la tensione verso la libertà degli uomini sono rimaste inalterate.
Non ho una parola finale ma ho sempre creduto in Davide contro Golia.Leggi qui sotto:
1Samuele 17,48-51
48 Appena il Filisteo si mosse avvicinandosi incontro a Davide, questi corse prontamente al luogo del combattimento incontro al Filisteo. 49 Davide cacciò la mano nella bisaccia, ne trasse una pietra, la lanciò con la fionda e colpì il Filisteo in fronte. La pietra s’infisse nella fronte di lui che cadde con la faccia a terra. 50 Così Davide ebbe il sopravvento sul Filisteo con la fionda e con la pietra e lo colpì e uccise, benché Davide non avesse spada. 51 Davide fece un salto e fu sopra il Filisteo, prese la sua spada, la sguainò e lo uccise, poi con quella gli tagliò la testa. I Filistei videro che il loro eroe era morto e si diedero alla fuga.
Siamo con te Federico e siamo in tanti. La sopraffazione è inaccettabile
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Un gigantesco GRAZIE.
Federico
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