Viaggio nelle terre desolate

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“What shall we do tomorrow? | What shall we ever do?” — The Waste Land, Eliot

L’aridità costituisce un peculiare esemplare di inferno. Vicino alla crudeltà, alla violenza, al degrado, forse al di sopra di tutto questo, o forse alle fondamenta. Più sotterranea, e, proprio per questo, più mortale. 
Si fa carne in paesaggi senza vita e case diroccate, ma comincia in appartamenti arredati come sempre, e in esistenze che non sembrano cambiate. Un lento prosciugarsi della linfa vitale, fino a che non si arriva al punto in cui nulla sembra più possibile, e tutto viene incatenato ad un presente perpetuo. Niente apocalissi, o guerre, o epidemie —solo una lenta discesa nel vuoto, ogni giorno sempre più ripida, ma mai abbastanza da provocare un risveglio. Almeno fino al giorno fatidico in cui si aprono gli occhi a tutto quel grigio, e ci si chiede: come siamo arrivati qui?
Così ne I figli degli uomini di Alfonso Cuaron, distopia basata sulla sparizione pressocchè totale dalla faccia della Terra di persone capaci di avere figli, non viene mai spiegato come si è arrivati a quel punto. Il protagonista cammina per una Londra che, a parte qualche edificio malmesso in più, potrebbe essere quella presente. Come scrive Mark Fisher nel suo magistrale Realismo capitalista, “il mondo che prefigura sembra un’estrapolazione o un’esacerbazione del nostro”. Rispetto alle tradizionali distopie, manca un nemico chiaro —magari un dittatore dalle idee deliranti, o un governo totalitario con la sua forza repressiva — e manca una catastrofe evidente — sia essa atomica, climatica, pandemica, o altro.
Invece ritroviamo la stessa aria di disperazione quieta del presente, la stessa tecnologia avanzata ma non abbastanza, gli stessi, terribili campi profughi, e in generale la sensazione di una violenza pronta ad esplodere ad uno schiocco di dita. Esplode quando tra i profughi viene trovata una ragazza incinta, contesa sia dal governo per averne il controllo sia da alcuni gruppi rivoluzionari per usarla come merce di scambio. Il protagonista tenterà di portarla in salvo. Verso dove? Verso una fantomatica organizzazione la cui esistenza è poco più che una leggenda e che rappresenta, più di un obiettivo reale, una speranza di salvezza.
L’aridità, dunque. Fa notare Fisher che non è difficile sviluppare la metafora e vedere, dietro la paura dell’infertilità generale, l’ansia per una crescente sterilità culturale. 
Di nuovo, la somiglianza col presente è stringente, quasi dolorosa. Nonostante la massa di informazioni ed opere e scoperte, è evidente che il mondo contemporaneo soffre di una profonda e radicatissima crisi creativa. La nasconde rifugiandosi in remake continui, sequel a non finire, variazioni su temi già usati che certamente incontreranno il gusto degli spettatori, ma, proprio perché programmate per piacere, non potranno mai veramente innovare. Questa trivializzazione dei soggetti ha invaso anche la letteratura e la cinematografia distopica, in cui il modello dello stato totalitario viene utilizzato per realizzare opere magari anche appassionanti e di perfetta realizzazione. Nondimeno, prive di quella qualità dirompente che è propria dell’arte. L’arte, qualcosa che si nutre del presente per alimentare il passato e viceversa, e che può sopravvivere solo in un dialogo continuo con il tempo.

In questo scenario, I figli degli uomini è tanto prezioso perché tenta un’operazione diversa. Non ci dà la soddisfazione di odiare un futuro crudele, si rifiuta di postulare una catastrofe lontana da noi, al contrario rigira il dito nella piaga e mostra in uno specchio distorto la nostra stessa agonia. 
Al posto che spaventare lo spettatore con un futuro terribile, insinuare dentro di lui il disgusto per un presente grigio e in realtà altrettanto crudele. 
Perché ne I figli degli uomini la crudeltà è quella che conosciamo tutti i giorni: depressione diffusa esemplificata dai “kit suicidio”, sfiducia verso il futuro, cultura della celebrità dei pochi bambini sopravvissuti, campi profughi ammassati nelle campagne e sulle coste. Lo stesso riscatto dei protagonisti alla fine è invaso da un senso di vanità: non basta un solo bambino a salvare la razza umana. Lo stesso senso di vanità e di cinismo di cui è pervaso il presente. Ma allora, come uscirne?
Per paradosso, proprio si comincia proprio col raffigurare questa realtà funerea e grigia e mettendo in scena la violenza di questa strisciante aridità.

Perché la consapevolezza è un punto di partenza necessario e può bastare di per sè a cominciare una rivoluzione. E perché, presa consapevolezza di un mondo arido, lo si può comunque ritrarre con indicibile bellezza. 
La salvezza e la vitalità del film non vengono tanto dalle azioni del protagonista, ma dalla macchina da presa di Cuaron e dalla bellissima fotografia di Emmanuel Lubezki. Come quando i protagonisti si rifugiano in una scuola desolata e filtra un raggio di sole tra le finestre appannate, illuminando debolmente i loro volti incerti. O come quando uno dei due si aggira in una zona di frontiera trasformatasi in campo di battaglia, quando la fotografia sembra sfaldarsi e ricomporsi per meglio rendere il caos e l’atrocità di quel momento. Tuttavia da quelle inquadrature si intravede la cura di chi le ha realizzate e la pazienza e l’attenzione e l’amore. 
La scrittrice Azar Nafisi, dell’arte, diceva: “la perfezione e la bellezza del linguaggio si ribella allo squallore di ciò che descrive”. Bisogna vedere la catastrofe, ma vederla attraverso gli occhi dell’artista e dunque (forse) salvarsi. Se ci tocca abitare in mezzo a queste macerie, tanto vale raccogliere i nostri cocci aguzzi di bottiglia e usarli per creare qualcosa. 

Francesca P.

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