“Perché già, a volte, sono stato un ragazzo e una ragazza, e un cespuglio e un uccello e un pesce muto nelle acque del mare.” — Empedocle
“Perché pensare che una vita è separata dalla prossima quando l’una nasce dall’altra?” — Luke Evans
“Domani, continuerò ad essere. Ma dovrai essere molto attento per vedermi. Sarò un fiore o una foglia. Sarò in quelle forme e ti manderò un saluto. Se sarai abbastanza consapevole, mi riconoscerai, e potrai sorridermi. Ne sarò molto felice.” — Thich Nhat Hanh
Ormai lo sapete, voialtri.
Più di 8 anni sono passati.
Solo tre volte è successo.
In due, stavo male da morire.
L’Uno, invece, quelle lacrime, le meritava.
Eterno ciclo. Calma immota. Colori tenui. Gli occhi rossi, allucinati. Lo sguardo placido, ma non spento. Un bisonte — reincarnazione. Un uomo-scimmia — immaginazione. Uno sdoppiamento — ubiquità. Linguaggio etereo, quasi stoppato. L’immagine è ferma, il tempo anche. Tutto scorre, niente dura. Tutto si trasforma, niente si conserva. Tutto rifugge, niente si custodisce.
Uncle Boonme Who Can Recall His Past Lives, tradotto con Lo zio Boonme che si ricorda le vite precedenti, opera di Apichatpong Weerasethakul, è tutto questo, e molto di più.
È discorso unico, fluido e, per questo, intraducibile. Non è solo l’applicazione di una filosofia di vita sotto forma di pellicola in un contesto, come quello occidentale, così rozzo e impreparato. Non è solo l’esportazione di una scuola di pensiero rivoluzionaria, dinamica come il sistema che così bene descrive. Non è solo un’opera dalla sconvolgente eleganza, tanto toccante quanto inusitata. È, letteralmente, un altro mondo. Il regista dal nome impronunciabile, evidentemente, non arriva da questo nostro pianeta. Tutto, in questo capolavoro, è alieno: lo è la regia, calma ma decisa; la sceneggiatura, indecifrabile eppure comunicativa; l’attorialità, elegante ancorché dimessa.
Ma, come si diceva, la parola chiave è una sola: intraducibile — con tutte le sue conseguenti derivazioni: incomprensibile, inaccessibile, incomunicabile. Lo zio Boonme che si ricorda le vite precedenti non è (perlomeno nell’idea di chi scrive ora) un film che abbia senso spiegare, descrivere, commentare. Proprio per la sua natura di opera totale, onnicomprensiva, è inenarrabile. Il primo film thailandese a risultare vincitore (2010) della Palma d’Oro del Festival di Cannes è così: flusso di coscienza inebriante, che unisce, a un’eleganza quasi pittorica, quell'”oceano di quiete, profonda calma dell’animo, imperturbarbile sicurezza e serenità” che Schopenhauer (la citazione è ovviamente sua) pensava connotare le opere di Raffaello e Correggio.
La trama, se con questo termine così svilente la vogliamo chiamare, è relativamente semplice. Quel che è difficile, quasi impossibile, è comprenderla nelle sue infinite sfaccettature, nei suoi ripieghi incrostati ai lati del film, nelle sue sfumate e incontenibili variazioni. Un piccolo proprietario terriero thailandese malato di insufficienza renale, Boonme, vive con Jai (immigrato laotiano che si prende cura di lui), la cognata Jen e il figlio di lei, Thong. È sera. Calma. Immota. Elegante. Apparentemente insignificante. A tavola si presentano la moglie Huay e il figlio. Peccato che la prima sia morta 19 anni fa e che il secondo sia scomparso recentemente. Lei è un fantasma, lui un uomo-scimmia dagli occhi rossi e fosforescenti. Ma, nonostante ciò — e qui il regista mostra la grandezza di questo film —, la calma prosegue. Nulla è strano. Tutto nella norma. Lo spettatore, schiavo di un’immagine dalla quale è impossibile staccarsi, assiste impotente. La vita si confonde con la morte — non due facce della stessa medaglia, ma un unico incessante ciclo — in un film che assottiglia la differenza (così rilevante per il pensiero orientale) tra pensieri, parole e azioni, che uniforma il piano narrativo, alla continua ricerca di un equilibrio instabile e, soprattutto, introvabile. Irrintracciabile come la reincarnazione che tratta, il film di Weerasethakul si sporge all’occhio di chi guarda mostrandosi solo in parte, lasciandosi definire dall’infinito gioco del regista, che oltrepassa la umana concezione di spazio-tempo di minuto in minuto, riportando lo spettatore allo stadio ancestrale da cui originariamente proviene. Prima delle forme pure a priori kantiane, c’è questo. E questo è il sorpasso del limite connaturato a ogni uomo. È la fuga verso il futuro, ripercorsa guardando al passato. Niente, in questo film, è presente. Tutto è assenza, prima e dopo sfumati e sfibrati, disossati sin dal loro interno, erosi dai loro lati e sfiancati nel loro centro. È in questo contesto che Huay dice a Boonme: «Il paradiso è sopravvalutato. Non c’è niente là. I fantasmi non sono legati ai luoghi, sono legati alle persone» . Ed è, se possiamo azzardare un’interpretazione in un film che sfugge assolutamente a qualsivoglia banalizzazione schematica, proprio la presenza dei “morti” (le virgolette sono d’obbligo, giacché la vita è morte e viceversa) a condurlo, molto più mentalmente che fisicamente, alla grotta dove, morendo, rinascerà.
Oltre a questo, come se questo non fosse abbastanza, mito e narrazione si erigono l’uno sulle macerie dell’altra: laddove la seconda esce di scena, è il primo a occuparla. Osserviamo, dunque, una commovente scena riguardante una principessa dal volto sfigurato, tanto umanamente scossa dalla sua mancanza di bellezza quanto straordinariamente incentrata sul così difficilmente concepibile (se è di uomini occidentali che si sta parlando) rapporto con gli altri esseri senzienti. Il tutto, peraltro, viene corroborato da un incantevole scenario, di abbacinante e incontaminata bellezza. Da quel momento fino al termine di questo capolavoro, il già labile confine tra qui e là viene disintegrato, spappolato, reciso — eppure, questo chirurgico lavoro di rimozione non violenta l’occhio di chi guarda, non lo stordisce con stucchevoli effetti speciali, né la accompagna in una comprensione che, come in tutti i grandi film, è lasciata all’intelligenza dello spettatore. Passato e futuro si confondono in un film aereo per visionarietà e sotterraneo per profondità, dileguandosi su un accompagnamento musicale dall’apollinea eleganza.
In un film denso di buddismo, e quindi di filosofia, trova concretizzazione il Sutra del Cuore e il suo passaggio più noto: La forma è vuota, la vacuità è forma, la vacuità non è altro che forma e la forma non è altro che vacuità.
Lì come qui, senza comprendere la natura della realtà non saremo in grado di liberarci completamente dalla sofferenza.
E se la natura della realtà, qui così lapalissiana, ci appare incomprensibile, dovremmo forse chiederci perché.
In fondo, proprio come diceva Thich Nhat Hanh, serve attenzione e consapevolezza per rendersi conto di come tutto permanga, in un eterno ciclo di morti e rinascite che veicola gli esseri senzienti verso la saggezza.
Sono le 19:30 del 10 settembre 2020.
Più di 8 anni dopo l’ultima volta, un film mi ha commosso.
Le lacrime scendono, poche e contigentate.
Ognuna è preziosa.
Lascio che scorrano.
Poi, un silenzio. Tendo l’orecchio e sento una voce flebile, frangibile, fragile.
La cerco, non la trovo.
Lei sussurra:
“Sarò un fiore o una foglia. Sarò in quelle forme e ti manderò un saluto. Se sarai abbastanza consapevole, mi riconoscerai, e potrai sorridermi. Ne sarò molto felice.”
Federico
Caro Federico, la tua recensione (di un’opera che non ho visto) è appassionata. In un cero senso mi ricorda il mio intenso affetto per Herman Hesse e il suo Siddharta. Il libro di Hesse narra le vicende di un giovane indiano che vive alla ricerca della via verso la realtà più profonda della felicità. Grazie allo stile inconfondibile che tesse sapientemente prosa e lirismo, questo romanzo come sai, è diventato il titolo di Hesse più apprezzato dal pubblico giovanile. I temi trattati – come la ricerca di sé, il rifiuto dei beni materiali, l’inquietudine spirituale – invitano infatti il giovane lettore a cercare la propria strada verso la saggezza. Tutto ciò mi è accaduto tanti anni fa. Capisco quindi la tua intensa recensione.
Poi passano gli anni e l’emozione si sposta un po’ per far posto alla ragione e alla ricerca di un sé costruito da sé stessi, in altri spazi e su altre dimensioni. A poco a poco queste diventano il tuo profilo interiore.
E può capitare che l’esito di tale ricerca porti a convincersi che il senso della vita non è nell’essere parte di un tutto che è un nulla o di un vorticoso divenire delle cose in cui ognuno di noi è un minuscolo petalo.
Bellissima recensione, grande film di sicuro, ma il mio Siddharta è ormai solo un bel ricordo, neanche troppo rimpianto.
Luciano
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Grazie mille.
Sul dizionario potrebbero scrivere: “Lux: illuminante per definizione”! ☺️
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