Sette contro Tebe

La storia del dramma greco si apre con la tragedia e la tragedia si apre per noi col nome di Eschilo. Nato ad ad Atene nel 525 a.C., è il primo dei 3 tragici inseriti nel canone tradizionale. Di lui tratteremo una delle sue 7 opere a noi giunte: I Sette contro Tebe (Epta epi Thebas).

Il teatro antico era molto diverso da quello moderno e contemporaneo; esso era concepito per grandi spazi aperti, indirizzato alla popolazione tutta e dotato di una fortissima carica religiosa e politica. Nell’Atene classica, esso trattava infatti di temi cari alla città e all’umanità intera e aveva il compito fondamentale di educare gli spettatori attraverso il mito, oggetto privilegiato delle trame tragiche.
In scena, l’azione era divisa fra un attore protagonista (che a turno interpretava i vari personaggi) e il coro (un gruppo di danzatori che cantava le proprie parti).
Secondo Aristotele, fu proprio Eschilo ad aumentare il numero degli attori protagonisti da 1 a 2, rendendo così possibili i dibattiti e gli scambi di idee in scena, rinunciando al monologo ma senza abbandonarlo. Questo portò la tragedia a dare un ruolo di rilievo al dialogo, all’analisi e all’espressione dei pensieri e le permise di sviluppare tutte le sue potenzialità concettuali. 

I drammi eschilei portano in scena storie di generazioni e destini di popoli che riflettono nella loro vicenda significati universali. Egli cerca di indagare il destino che regge le sorti dell’umanità, dargli un senso e soprattutto vuole renderlo epico, grandioso ed eroico.
Nonostante sia lui stesso ad ammettere la propria ignoranza di fronte alle scelte divine e il fato, egli vuole credere nella giustizia del Dio e nella responsabilità dell’essere umano per la propria sorte. I delitti travalicano il singolo e ne colpiscono la stirpe, che non si può liberare da tale fardello in nessun modo. Gli uomini possono tentare di fuggire, ma non fanno che rendere più chiara la propria fine.
La consapevolezza dell’ineluttabilità del destino libera dalla condanna e porta l’individuo ad arrendersi eroicamente.  

Quella dei Sette contro Tebe è un’opera incentrata sulla figura di Eteocle, figlio di Edipo e in lotta contro il fratello Polinice. La vicenda è tratta dal cosiddetto “ciclo tebano“, ovvero quell’insieme di miti e tradizioni legati alla città di Tebe e al suo empio sovrano: Edipo.
Edipo ha l’anima macchiata da un’orrenda colpa: l’aver ucciso il padre e l’aver sposato (seppur a sua insaputa) la madre, da cui per giunta ebbe 4 figli: Eteocle, Polinice, Antigone e Ismene.  Quella dei Sette è la tragedia di una famiglia toccata dalla colpa del suo capostipite che si riverbera su tutti i suoi successori. Sembra incomprensibile la scelta divina di punizione — Edipo infatti è un ottimo sovrano, retto e giusto, che ha liberato Tebe dalla sfinge e che si batte per il benessere della città. 

Le vicende si aprono sulle conseguenze della fuga di Edipo dalla città, dopo aver scoperto che la moglie Giocasta è in realtà sua madre. Eteocle e Polinice decidono, dunque, di dividersi il potere e di regnare un anno ciascuno.
Un giorno, Eteocle rifiutò però di restituire Tebe al fratello scatenando una guerra, quella appunto dei Sette. 

Tebe è chiusa da 7 porte e davanti ad ognuna Polinice pone i suoi migliori condottieri a cui Eteocle opporrà i suoi. Da qui il titolo I Sette contro Tebe. I due fratelli si sfideranno corpo a corpo davanti ad una di esse e periranno.
Molto difficile è definire da che parte si schieri la giustizia in questa vicenda: Eteocle ha usurpato il potere del fratello, venendo meno ai patti, ma Polinice sta marciando in armi contro la sua stessa città! Entrambe le posizioni sembrano colpose.
Uno degli elementi tragici del dramma sta proprio qui, nell’incapacità di discernere da che parte dovremmo stare. Dalla parte di un usurpatore che difende le mura della propria città e del proprio popolo, o dalla parte di un principe che vuole che i sacri patti vengano mantenuti?

Eteocle e Polinice sono in realtà colpiti dalla stessa maledizione, data loro dal padre: la macchia non svanisce, nemmeno nelle generazioni. Il destino dei Labdacidi (stirpe di Labdaco, ossia la famiglia di Edipo) è segnato e solo la morte li potrà liberare.
In effetti è quel che accade: Eteocle e Polinice muoiono, uccisi l’uno dall’altro sul campo di battaglia. Entrambi hanno compiuto il destino che spettava loro: la morte.
La dignità nell’uomo difatti non sta nel capire il perché il destino si compie, ma nel capire che deve compiersi, qualsiasi siano le cause (che possono addirittura non appartenerci). Eschilo, nelle sue tragedie come in questa, sembra in realtà essere alla ricerca disperata di un modo per dare senso agli eventi dolorosi che colpiscono gli uomini inspiegabilmente.
Perché Edipo, buon re e buon uomo, disposto a sacrificarsi per il bene della città e della famiglia, deve invece perire al destino e veder perire i suoi figli? Perché deve soffrire continuamente purché disposto ad espiare il suo crimine? E perché mai soffrire per un’empietà compiuta senza alcun volere?
L’esperienza di Edipo da questo punto di vista sembra avvicinarsi molto a quella di qualsiasi altro essere umano. Tutt’oggi ci si domanda instancabilmente di fronte alla sofferenza “perché a me?”, “cos’ho fatto per meritarmi questo?”.
La risposta sembrerebbe essere: nulla. A volte veniamo puniti come per un peccato originale, senza aver commesso crimini o colpe.
Eschilo però, dotato di un profondo senso religioso, non vuole credere a una simile risposta e cerca attraverso i suoi drammi di darci una ragione a cui aggrapparci.
A volte veniamo puniti per colpe remote, recondite, dimenticate, che però pesano come un giro di conti non ancora chiuso sull’equilibrio del kosmos. La giustizia (dike) deve compiersi e rimettere tutto al suo posto, pagare ogni debito.
Agli uomini non resta che accettare con fede il destino, abbracciarlo e affrontarlo con quella forza e quel coraggio che li renderanno eroi.

Laura

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