Antigone è l’eroina protagonista dell’omonima tragedia sofoclea, portata in scena nel 442 a.C. e che, a distanza di 2500 anni, ancora ci parla profondamente di noi e degli altri e del rapporto che ci lega.
L’Antigone non solo è la più nota tragedia di Sofocle, ma probabilmente la più nota in assoluto fra tutte le tragedie classiche. Molti, in anni successivi, l’hanno studiata da vicino, approfondita e amata, dal rinascimento sino ai giorni nostri.
La tragedia antica nasce per essere assoluta e universale, per essere appunto “classica”. I suoi messaggi e i suoi personaggi non invecchiano mai, non appartengono alla circostanza né alla storia, ma scavano in profondità nel cuore dell’uomo facendo zampillare la sua essenza più vera, che rimane inalterata dentro di noi dall’inizio dei tempi.
Antigone e Creonte sono gli assoluti protagonisti della vicenda, le due personalità che si scontrano in questa lotta fra opposti che alla fine non sono poi così diversi. Entrambi sono logorati dalla propria ossessione, dalla propria ferrea volontà di fare quel che decidono.
La vicenda si apre sulla fine degli avvenimenti della Guerra dei Sette (narrata invece nei Sette Contro Tebe di Eschilo), quando Eteocle e Polinice ormai morti cedono il potere allo zio Creonte, fratello della loro madre, un tempo regina di Tebe.
Polinice viene accusato dal nuovo governatore di essere un empio nemico della patria, che ha marciato in armi sulla sua stessa città. Creonte decreta che il suo corpo rimanga insepolto, alla mercé delle bestie e degli agenti atmosferici. Per la sensibilità e la religiosità greca questo era un affronto senza pari per un defunto, che non avrebbe così potuto mai superare l’Acheronte e giungere nell’Ade. Era un atto di un’empietà inaudita.
Antigone, sorella dei due principi, non può accettare un simile gesto. Il legame di sangue con Polinice è forte, è sentito, non può abbandonare il fratello, nemmeno nella morte. Decide quindi di seppellire almeno simbolicamente Polinice, consapevole del fatto che la legge l’avrebbe condannata a morte.
Antigone non ha paura — anzi, tutt’altro: non vuole nascondere il proprio gesto, vuole prendersene tutto il grande merito che ne deriva. Lei ascolta soltanto le leggi non scritte degli dei, non teme certo i decreti dello zio, che non è altro che uomo mortale come lei. “So d’esser gradita a chi più devo” dice, riferendosi ai defunti e al volere divino.
Antigone diventa il simbolo della disobbedienza sociale. Non si sottometterà mai al volere altrui, al volere di chi non riconosce come autorità. Guidata dai suoi personali ideali, religiosi ed etici, si batterà fino alla morte per ottenere quel che ha deciso. Morirà suicida, impiccata, nella cella dove Creonte l’aveva rinchiusa per morire di fame. Non fugge la morte, anzi l’abbraccia, consapevole che una vita vissuta nella sottomissione a valori non propri equivale a non vivere affatto. Non le interessa che cosa la legge abbia da dire a riguardo: quel che le importa è il parere della propria coscienza e del fratello defunto che incontrerà negli inferi.
Antigone rappresenta dunque anche la saldezza dei legami familiari, che non si spezzano con il finire della vita, ma continuano per sempre. Non seppellire Polinice avrebbe rappresentato la fine della loro unione, un torto gravissimo e imperdonabile. Antigone non può sopportare che il fratello non la sappia cara.
Creonte, dall’altra parte, è ossessionato dal proprio potere, la sua ossessione è legata al comando. Ora che lo ha ottenuto, compie un grave sacrilegio — lasciare un morto insepolto. Tutti, dal coro di vecchi tebani, che rappresenta la città tutta, al figlio Emone, sono contrariati. Creonte è osteggiato anche da chi ha più caro. Eppure, non può più tirarsi indietro. Non può umiliarsi ritrattando la sua decisione. Per orgoglio e per futile ostinazione, anch’egli verrà distrutto dalla morte del figlio e della moglie.
Il discorso fra Emone e suo padre Creonte sembra quasi raggiungere il tono di un dialogo interiore, uno di quelli che potrebbe avvenire dentro ognuno di noi fra la nostra parte logica, emotiva e il nostro orgoglio. Emone, promesso sposo di Antigone, cerca di aprire gli occhi al padre. La sua è una colpa grave contro le leggi divine, ma è ancora in tempo per salvare la situazione. Deve abbandonare l’idea vecchia per quella nuova, ritrattare, ammettere l’errore (che è ciò che di più umano esista). L’uomo davvero intelligente è colui che cambia prospettiva, riuscire a cambiare è sintomo di indagine interiore ed esteriore, è un gesto alquanto ammirabile.
L’orgoglio però vince e Creonte non cede. Emone quindi si ucciderà con Antigone e la madre Euridice.
Creonte e Antigone rappresentano l’ossessione cieca, che porta alla distruzione. Antigone perde per sempre la luce del sole, Creonte perde per sempre la luce della sua vita, ovvero la moglie e il figlio.
Spesso ci possiamo riconoscere all’interno di ognuno di questi personaggi. Antigone e il suo volersi opporre al volere esterno; Creonte e la sua ostinazione, la sua paura della vergogna e del fallimento; Emone e la sua bontà d’animo, la sua pacata razionalità e l’amore grande che prova per il padre e per la futura sposa. Ancora, è per me incredibile constatare come il teatro antico riesca a portare in scena pezzi di noi. Rappresentare gli esseri umani nelle loro essenze più primitive, più profonde e recondite, riesce ad analizzare i processi di scontro ed evoluzione che queste essenze affrontano.
Leggere o vedere una tragedia greca è come guardare dentro noi stessi, fa comprendere il proprio dolore e quello altrui. Ci rende magnificamente più umani e più coscienti del mondo immenso che portiamo nel cuore.
Laura
Articolo semplice e chiaro anche se non esaustivo delle problematiche interpretative della figura di Antigone la cui letteratura è vastissima. La morte dell’ eroina è da ricercare nell’ambito della parentela e dei rapporti con il fratello, sembra superato il concetto di Antigone come emblema del femminismo e disubbidienza alle leggi .Studiata al Liceo con la sudata traduzione mi ha sempre affascinato ma il significato della tragedia mi è sembrato molto diverso da quello che avevo acquisito nella scuola (parlo del secolo scorso ).
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