Le età della solitudine

Il davanzale della cucina è già contornato da una fila di lucine colorate. Tra i due vasi di terracotta che ospitavano un tempo la mia piccola piantagione di basilico c’è un binocolo: Anna lo usa di tanto in tanto per controllare che i cavalli, che pascolano liberi sulle montagne nei pressi della fattoria, non salgano troppo in quota avvicinandosi al ghiacciaio o, semplicemente, per guardare cosa accade lassù. Io lo uso di tanto in tanto, quando sono annoiato, per dare un’occhiata a quello che succede intorno alla fattoria. 

Una macchina è appena uscita di strada e ha preso fuoco: il conducente è riuscito a strisciare fuori in tempo e ora abbraccia un poliziotto che sta provando a mettergli una coperta sulle spalle. Incidenti come questo sono piuttosto comuni sulle strade islandesi, è il secondo nei pressi di casa ed è la seconda volta che osservo la scena attraverso le lenti del binocolo. Mi guardo intorno: oltre la collina vedo spuntare la lamiera azzurra del tetto della fattoria dei vicini, una coppia di corvi ha fatto il nido su uno dei pochi alberi che adornano la brughiera. 

Kollbrun, la mia anziana vicina di casa a cui ho fatto riferimento nell’ultimo articolo, sta rincasando: si trascina barcollante lungo la stretta strada sterrata, scura come la terra islandese, che attraversa la brughiera dorata. Sopra di lei, si alza una colonna di fumo nero. Indossa un cappotto chiaro al di sotto del quale spunta l’orlo del suo vestito blu, lo stesso che indossava l’ultima volta che abbiamo parlato. La osservo fino a che non scompare dietro l’orizzonte. 
Kollbrun ha ottantasette anni, come mia nonna, e vive da sola in quella che una volta era la fattoria del marito: lui se ne è andato due inverni fa, lo hanno sepolto nel cimitero che circonda la piccola chiesa vicino a casa, lo stesso dove vuole andare a riposare lei, e da due anni gli fa visita due volte alla settimana, ma non la domenica, quando i figli la vengono a trovare. Il resto del tempo lo passa seduta sulla soglia di casa leggendo poesie, le sue preferite sono quelle di Jonas Hallgrimsson.  L’ultima volta che ci siamo parlati, a pochi giorni di distanza da quella raccontata nel mio ultimo articolo, ha provato a distogliermi dal continuare questa serie di riflessioni: mi ha detto che sono troppo giovane per preoccuparmi della solitudine, che sono i vecchi che dovrebbero preoccuparsene. Lei si definisce una “maestra della solitudine” — mi chiedo, ora, mentre scrivo, se la lingua islandese abbia una qualche parola per rendere questo pensiero — e, se c’è una cosa che ha imparato, è che alla solitudine non bisogna mai pensarci troppo, o si finisce per passare le giornate a piangere e parlare a delle lapidi che nemmeno sanno chi siamo.  

Ho provato a controbattere dicendo che non è così, che la solitudine non ha un’età e che ha senso interrogarsi su di esse quando si è giovani, perché è lì che si ha ancora una possibilità di cambiare le cose, ma lei ha risposto che a certe cose non bisognerebbe pensarci mai, né a venticinque né a ottantasette anni. 

Ogni tanto, quando la spio attraverso le lenti del binocolo, mi ricorda vagamente mia nonna: hanno circa la stessa età e quel modo pacato di fare, di essere, come se cercassero di fare tutto, di vivere, di respirare, senza dover disturbare nessuno. 

Mia nonna, però, non vive da sola in una fattoria in mezzo al nulla, ma in un piccolo appartamento, in una vecchia casa, in compagnia di mio nonno, da tempo malato. Hanno entrambi quasi novant’anni e ne hanno passati insieme sessantatré dei quali più di cinquanta nella stessa casa. Mio nonno non esce da anni, mentre mia nonna si concede di tanto in tanto qualche passeggiata avanti ed indietro lungo l’androne di casa, dalla cucina sino al portone affacciato sulla strada. Non credo guardino più nemmeno fuori dalla finestra. Poco prima che partissi per l’Islanda mi hanno fatto capire che, probabilmente, al mio ritorno io non li avrei trovati lì ad aspettarmi. Mio nonno ha provato a smorzare il tutto con una battuta, mentre mia nonna ha cercato invano di trattenere le lacrime. Quel giorno avrei voluto provare a chiedere loro cosa si provasse a passare la vita da soli, da persone sole: forse mia nonna mi avrebbe risposto allo stesso modo di Kollbrun, forse mio nonno avrebbe provato a smorzare il tutto con una seconda battuta, ma la verità è che non lo saprò mai, perché all’ultimo ho deciso di tacere. Forse loro non si erano mai fermati a pensare alla loro solitudine, forse nemmeno sapevano di essere soli e, di certo, non sarei stato io a consegnare loro quella terribile epifania. 

Sono convinto che ci siano due momenti ben precisi della solitudine: il primo è quello in cui si diventa, (o, in alcuni casi, si nasce) soli, il secondo arriva quando ci si scopre soli. Questa era stata la fortuna dei miei nonni: da che si erano isolati in casa (ma forse da molto prima) avevano avuto modo di abituarsi alla solitudine in maniera così graduale, approfittando l’uno a quella dell’altro, che non avevano avuto occasione di scoprirsi soli. 

La scelta del termine “isolati” non è casuale: chi ha letto il mio precedente articolo ricorderà che sia K. (Krista) che B. (Beinta) avevano parlato della loro solitudine facendo uso del termine “isola”. Nel caso dei miei nonni, la metafora regge ugualmente: mentre scrivo, li vedo abitare quella loro solitudine, come una casa. Vedo poi quella casa trasformarsi lentamente in un’isola, prima nel mezzo di un lago, poi dell’oceano. L’ultima cosa che vedo, prima che questa scompaia, è mia nonna che mi saluta dall’androne di casa prima di chiudere la pesante porta di legno dietro di sé.

Forse Kollbrun aveva ragione, e il motivo per cui una persona giovane come me dovrebbe smetterla di pensare alla solitudine è che più uno ci pensa, più corre il rischio di scoprirsi solo: questo è forse l’unico motivo per cui valga la pena tenersi alla larga da certi pensieri. 
L’ho vista ricomparire all’orizzonte, avvolta nel cappotto chiaro e con indosso un paio di stivali scuri: ha preso la via della brughiera mentre il sole dietro di lei andava tramontando. La coppia di corvi si è alzata in volto pochi secondi dopo scomparendo nella luce indaco del crepuscolo.                                                           

“diario di viaggio, 07/11/2020
Non è questa l’età per rassegnarsi alla solitudine”

Enrico Luigi Giudici

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...