Il mio cuore a Parigi

Una nuova dimensione

Sto addentando un mochi, un tipico dolcetto giapponese — esperienza nuova e sconvolgente per il mio palato occidentale. Al primo morso, storco il naso. Una volta finito, mi chiedo quale sia il motivo del senso di viscidume che mi lascia: è molle, ma non come una gelatina, la gelatina è anche consistente ed elastica; questo invece sembra che possa sciogliersi da un momento all’altro, però non lo fa. Rimane con la sua forma fino a che non vi si affondano i denti dentro.
Non so se ne mangerò un altro ancora.
Al secondo ci ripenso su. Mi rimane la stessa sensazione, ma questa volta è piacevole. Il sapore, poi, lo sento solo adesso, sa di riso e tè verde — cose di cui effettivamente è composto.
Stamattina ne ho mangiato un altro, e finalmente mi pare gustoso.
Credo che li finirò entro stasera.

Sto scrivendo da due giorni ormai senza arrivare al punto. Non so bene neanche io quale sia, ma mi ci voglio lasciare condurre. Sento che posso partire dai mochi, che mi fanno viaggiare a Tokyo anche se li ho acquistati al supermercato asiatico sotto casa, come da una qualsiasi cosa di cui ho fatto esperienza nell’ultimo periodo. Come la vista dal balcone della cucina di questa casa: di Parigi sono famosi i tetti, e da qui posso vedere quel che non si vede – un tetto parigino immaginario.
La facciata dell’edificio di fronte, al di là del cortile interno alberato e pieno di foglie gialle a terra, ha quello stile che mi ricorda la città in cui non sono mai stata.
Un gatto nero spunta sul balcone dell’ultimo piano di quell’edificio, confermandomi che la mia mente ci ha visto bene: si può creare qualsiasi cosa all’interno di uno spazio, e io ho scelto di creare con la mia mente una Parigi su misura, adatta alle mie esigenze.
Come quel gatto che compare sul davanzale, i rapporti che da poco ho iniziato a costruire sono inaspettati, eppure perfettamente combacianti, nel profondo, con me stessa.

La casa in cui mi trovo è il luogo d’incontro di bellissime cose.
A ottobre ho iniziato la convivenza con le mie amiche universitarie, non sapendo bene cosa aspettarmi: per certi miei tratti caratteriali, condividere gli spazi e capire come muovermi all’interno di un territorio già segnato mi provoca una certa instabilità emotiva.
Cercando innanzitutto di capire come organizzare le mie cose in modo da non invadere i loro spazi, sono rimasta spiazzata dalla naturalezza con la quale si passava da una stanza all’altra a seconda dell’umore — S, posso studiare sulla tua scrivania stamattina? — e dall’affetto con cui si condivideva il cibo nonostante le spese separate — G, posso rubarti un altro po’ di peanut butter?
Presto sono entrata nelle dinamiche quotidiane di questa casa affettuosa e in relazione più intima con ognuna delle sue abitanti. In uno dei nostri momenti, riunite intorno al tavolo della cucina dopo cena, parlando del borbottio della vicina — di cui sentiamo tutte le conversazioni attraverso la parete — come delle nostre esperienze di vita, del nostro presente e del nostro futuro, ho pensato: questo è un periodo che ricorderò sempre.

Nello stesso periodo mi sono innamorata. Trovare una connessione mentale, sensoriale, e insieme emotiva — una conversazione stimolante, un abbraccio rigenerante e un senso di amore illimitato — trovo che sia quanto di più straordinario possa verificarsi in un rapporto umano.
Ora, per una serie di circostanze esterne, da ultima arrivata nella nostra casa milanese mi ritrovo a essere l’unica a viverci per un mese intero. Alla presenza delle ragazze con cui ho vissuto in totale armonia in un periodo così incerto, con le misure di contenimento dei contagi che ritornano a stringere sulle nostre vite, si sostituisce momentaneamente quella di una persona che mi conosce da poco e però mi vede al naturale (e che io vedo al naturale) perché ci siamo detti entrambi “io queste cose non le ho mai raccontate a nessuno”. Niente di segreto, cose di vita ordinaria.
Posso fantasticare su Parigi con qualcuno che sta al mio gioco facendomi notare che il mercato rionale nella via sotto casa è forse la cosa più parigina che ci sia.
Condividere, per un periodo di tempo più o meno indefinito, ogni momento della giornata con una persona che si ha appena iniziato a conoscere è quasi una scommessa. Non mi sono mai buttata in qualcosa senza sapere come sarebbe andata a finire – eppure questa volta mi è venuto naturale, sono stata attratta da un’affinità su cui non mi potevo sbagliare.

Ho vissuto esperienze così diverse in questi mesi, dalla più dura alla più dolce.
Nel mese di marzo, esplosa la pandemia, mi sono ritagliata uno spazio esclusivo fin da subito. Non mi è dispiaciuta affatto l’idea di non poter intrattenere rapporti con il mondo esterno per un po’. Tutti i libri da finire, i film nuovi da vedere, la libertà di potermi rilassare e concedermi del tempo di puro ozio. Finché non ho esaurito tutte le mie voglie, mi è andata bene così.
L’estate ho voluta dedicarla alla leggerezza e alla sensorialità – tutto ciò di cui ero andata in astinenza mesi prima: mentre vivevo in prima persona l’epidemia su mio padre malato, nel quaderno su cui di solito scrivo pensieri quotidiani non facevo che parlare del sole e di come ti accarezza la pelle anche attraverso la finestra, dell’odore di fiori immaginario, che mi riportava al viaggio in Polinesia di due anni fa, del verde dell’erba fresca, e di come doveva essere il mare in Puglia in quel periodo dell’anno.
Ho fatto il pieno di tutto ciò che mi era mancato e a fine estate sono tornata a casa sazia.
Dando tempo al tempo, ho vissuto fino in fondo la solitudine per prepararmi a sperimentare qualcosa di nuovo.

Di recente ho lodato un’amica per la sua capacità di curare i suoi rapporti come se fossero fiori. Una qualità simile, per me, è meravigliosa — mi sono ripromessa di svilupparla anch’io.
In pochi lo fanno, anche con il rischio di sembrare di rincorrere gli altri; ma ho provato su di me la soddisfazione di fare il primo passo per conoscere qualcuno, o per entrarci in rapporto più stretto. Nel campo delle relazioni umane, realizzo che nessuno sforzo è sprecato.
Si può viaggiare a Parigi come a Tokyo almeno un po’, se la nostra mente ne crea le condizioni adatte.
Si può anche esaurire la propria solitudine, una volta assaporata fino in fondo, per andare a ricercare altri mondi che arricchiscono il nostro.

Valeria Delzotti

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