Del crescere da soli

Scrivo e penso che questo è l’ultimo, o comunque dovrebbe esserlo, dei miei articoli sulla solitudine. Ed è un pensiero al quale fatico ad abituarmi: non perché in tre mesi io abbia sviluppato un qualche legame affettivo con questa rubrica, ma perché, in tutta onestà, mi sento come se non avessi detto che una minima parte di quello che realmente ci sarebbe da dire sul tema della solitudine. 
A consolarmi, comunque, è il fatto che anche qualora mi venissero concessi altri venti, trenta, articoli, questa cosa non cambierebbe. Della solitudine ci sarà sempre qualcosa da dire.
Dicevo: questo è il mio ultimo articolo sul tema e, per l’occasione, ho deciso di lasciare al loro posto tutti quei personaggi che vi ho presentato nelle storie precedenti. Lascio Kollbrun nella sua fattoria, K. da qualche parte in Norvegia, e B. — che nemmeno mi parla più — credo si trovi ora in Danimarca, o forse in Svezia. Oggi parliamo di me.
Dalla mia agenda, 22/02/20: “in famiglia eravamo quattro solitudini diverse, costrette a cercarsi senza potersi trovare”.
Parto da qui.

La prima volta che parlai a qualcuno della solitudine, del fatto che mi sentissi solo, avevo 12 anni; la persona con cui ne parlai fu mia madre, che di anni ne aveva trentadue. Scelsi di parlarne con lei perché in famiglia allora eravamo in quattro — mio nonno aveva ormai 83 anni, mia sorella solo nove e io ero stanco di parlarne da solo davanti allo specchio. Era il 2007, mia madre non si dimostrò in grado di aiutarmi (o di capirmi) e io passai i successivi 13 anni ad avercela con lei per questo motivo. Scrissi quel breve appunto sulla mia agenda, a matita, poco prima di rientrare in Italia e passare qualche mese con lei, prima di rendermi conto che quella che sembrava essere una rivelazione di poco conto — eravamo tutti soli in famiglia — avrebbe cambiato per sempre il modo in cui avrei visto mia madre e mia sorella e quello in cui avrei ricordato mio nonno. Tre persone sole, che avevano forse cercato in tutti di non esserlo e, anzi, che forse nemmeno erano mai riuscite a riconoscersi come tali.
Nei mesi in cui sono stato costretto in casa con mia madre l’ho osservata spesso, come se ne stessi realizzando un qualche tipo di reportage comportamentale. Non c’è stato giorno senza che io mi facessi le tre domande: era ancora sola? Lei sapeva di esserlo o esserlo stata? Che tipo di solitudine era la sua?
Ma, soprattutto: era davvero una solitudine così diversa dalla mia da impedirle di comprendermi e aiutarmi?

Ho raccontato questa storia per la prima volta a una sconosciuta, durante il mio primo viaggio in Scandinavia. Era il 2017. Prima di allora, non ne avevo mai parlato con nessuno. È stata la prima volta che una sconosciuta mi ha abbracciato, ma in quell’abbraccio non avrei trovato nessuna delle risposte che cercavo.
Una delle cose che mi stupisce di più, comunque, è che, salvo qualche notevole eccezione, il concetto di solitudine sembra essere scomparso dalla mia agenda: nel corso degli ultimi tre anni vi compare solo in tre occasioni, il che è ancora più curioso se penso al fatto che il 2018 è stato l’anno dei primi grandi viaggi in solitaria — più o meno cinque volte nelle Isole Faroe, tre in Norvegia, una in Islanda.
Questa la premessa per scrivere quanto segue — che è, in parte, il motivo per cui avrei voluto che questa serie di riflessioni venisse pubblicata in anonimo.
Il concetto di solitudine è ricomparso nella mia agenda tre giorni fa. No, non parlo della solitudine di quegli esotici personaggi che ho incontrato nei miei viaggi e nemmeno di quella solitudine dal sapore vagamente romantico che, più volte, ho sperimentato sui ghiacciai d’Islanda o sotto i cieli della Norvegia, illuminati dalle draconidi e dalle aurore boreali, no. Quella è una solitudine diversa, una di cui si vuole scrivere, ma non quella di cui bisogna scrivere.

Così, dalla mia agenda, 23/11/2020. Mi chiedo se io non abbia ereditato la mia solitudine da qualche parte…”
Il pensiero è stato prontamente cancellato, o comunque nascosto, ora è a malapena leggibile sotto il disegno di una nave pirata, il che mi riporta alla mente un altro ricordo, una notte in cui cercai di cancellare la mia solitudine dalla strada, sempre nascondendola dietro ad un disegno. Allora era stato un pupazzo di neve.
Sono quasi certo di non aver ereditato la solitudine di mia madre, ma quella di mio nonno. Questo forse spiega perché fossimo così legati l’uno all’altro, e forse spiega anche quel legame che, ancora oggi, sembra unire mia madre e mia sorella. Ricordo che tempo fa mia madre era solita guardarmi come se si sentisse in colpa nei miei confronti; per anni ho pensato di essermelo immaginato e di aver visto, nel suo sguardo, nulla più di quello che avrei voluto vederci. Forse, mi ripeto, volevo che lei si sentisse in colpa, volevo leggere nel suo sguardo la frase “lo so che ti senti solo, vale anche per me. Però non posso aiutarti, e mi dispiace”. Lo scorso anno, però, quando sono tornato dalla Norvegia dopo quattro mesi, quello sguardo non c’era più, nonostante io non avessi — ancora — smesso di volere. Qualcosa era cambiato, e forse era colpa mia: forse scappando, abbandonandola, l’avevo convinta della sua innocenza e la colpa era diventata, tutto a un tratto, mia. È una cosa su cui scherzo spesso, se non altro perché mi piace scherzare sulle cose che non capisco: quale che fosse la mia colpa, doveva essere in Norvegia.

Torno per un istante alla frase del 22 Febbraio di quest’anno — in famiglia… senza potersi trovare — e mi chiedo dove effettivamente risieda l’aspetto peggiore di questa situazione.
Mi rispondo che la nostra incapacità di comprenderci a vicenda — della quale non faccio una colpa a nessuno — potrebbe non essere stata la parte peggiore, anzi. Forse il problema era che, in fondo, le nostre reciproche solitudini non ci apparivano così nascoste, misteriose sì, ma non nascoste. E, forse, trovandoci incapaci di aiutarci, avevamo tutti scelto la strada del silenzio. Non potendo fare nulla, avevamo tutti scelto di provare a non disturbarci a vicenda, vivendo ciascuno la sua solitudine senza fare troppo rumore.

Dal mio diario, poco sotto lo schizzo di una nave pirata:

“voglio una solitudine che faccia un rumore assordante”.

Enrico Luigi Giudici

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