Linee di matita

Gli stereotipi nella società

Per quanto parlare di stereotipi consti di fatti — a oggi — piuttosto oggettivi, farlo in modo più intimo mi riporta agli anni dell’infanzia e alla magra consapevolezza che, per proteggerci da quanto differisce da noi, creiamo spesso delle distanze inalienabili. 

Quando si è bambini, i ruoli sono linee trascrivibili a matita. Vogliamo quello che ci piace senza confusione né tentennamento, ci approcciamo alla realtà nella nostra forma originaria. Impariamo, a nostre spese, che il fuoco brucia e che il pianto scaturisce dal dolore. Se cadiamo, ci rialziamo alcune volte a fatica; impariamo che il rosa è un colore da femmina, e che le bimbe indossano vestiti da bimbe, ma nessuno ci spiega il perché. Io — che non ho mai avuto dubbi sulla mia identità sessuale e che a oggi mi identifico come donna — da bambina vestivo indumenti maschili, e preferivo di gran lunga un taglio corto alla “maschietta”. Fatta eccezione per mio papà e mia mamma, abituati alle domande su chi fosse il loro tenero “bimbo”, il giudizio stava agli altri. Le definizioni, le etichette di ciò che avrei dovuto fare, di ciò che sarebbe stato più consono per una ragazza della mia età, mi avrebbero toccata dapprima di striscio, e poi più profondamente nell’adolescenza. A oggi, vi dico, mi intristisco a ripensare ad alcuni fatti. L’apice della crisi avvenne quando, in procinto della mia prima comunione, decisi di tagliare nuovamente i capelli corti — evento che scatenò l’apoteosi. Mia nonna, per la quale provo un bene immenso, mi guardò preoccupandosi delle foto; mia mamma, a oggi (ri)educata dai tempi e dalla loro mutevolezza, si preoccupò dell’acconciatura. Io, vestita di bianco, mi sentivo invece felice — felice, sì, ma di una felicità mozzata. Era sbagliato quello che avevo fatto? E perché? Nessuno dei miei amici ci aveva fatto caso. I grandi, invece, temevano il dettaglio adombrati da circostanze che solo anni dopo mi sarebbero risultate più chiare. Ne sentivo addosso il peso, sebbene tutto quello che avevo fatto era stato disegnare nuovi orizzonti lì dove tracciavano confini con la mia matita. 

A oggi qualcosa sta cambiando, e si sta facendo finalmente luce su come il pregiudizio del diverso costruisca muri — anziché ponti — tra categorie socialmente distinguibili. Questo accade dovunque: che si parli di stereotipi regionali, del colore dei capelli o di denigranti battute sull’incapacità delle donne, il senso di quanto dico non cambia. Siamo tutti classificabili in un tipo piuttosto che in un altro, e ce ne rendiamo conto quotidianamente: abbiamo stereotipi alla guida, stereotipi a lavoro, stereotipi su anziani, bambini, su persone di un’etnia differente, sul modo di vestire, sull’identità di genere e sulla sessualità. Sembrerebbe che il mondo si filtri ai nostri occhi attraverso una lente che, anziché ingrandire le cose, ce le renda più semplici. Siamo infastiditi quando il pregiudizio ci stigmatizza a nostro discapito, ma non possiamo fare a meno di fare altrettanto con gli altri. 

Proprio contro gli stereotipi di genere è stata presentata a distanza di pochissimi mesi una proposta di legge contro le raffigurazioni sessiste e le frasi denigranti all’interno dei libri di scuola. Tali luoghi comuni, infatti, sarebbero in grado di inibire le ambizioni femminili, alimentando un circolo di tradizionalismo patriarcale che da sempre, ahimè, ci rende uno dei paesi più retrogradi d’Europa. 
Il fatto che uno dei primi muri stia per essere abbattuto, non deve però distrarci dalla verità dei fatti — e cioè che spesso, a seconda della fascia di popolazione presa in esame, si creano pregiudizi duri a morire.

Insomma, di esempi ne potremmo fare a centinaia, ed è per questo che fermarsi all’apparenza o a una constatazione di chi abbiamo di fronte non solo è disumanizzante, ma ci ritorna anche indietro — a effetto boomerang. Dovremmo essere noi, capisaldi di un’attuale e futura generazione, ad aprire le porte verso ciò che non conosciamo; a parlare, chiedere, conoscere — restituendo umanità a chi, molto spesso di getto, abbiamo catalogato in un genere, anziché in un altro. Lasciare, poi, la libertà di espressione sempre, perché un figlio possa crescere più consapevole di se stesso e non condizionato da insensati tradizionalismi.
Non esistono spazi o mansioni d’obbligo per un sesso o per l’altro, soltanto quello che decidiamo e che vogliamo fare, ed esempi quali Katherine Johnson, Amelia Earhart, o la nostra connazionale Sara Gama, dovrebbero farci riflettere.

E, per quanto riguarda la bambina incompresa del mio passato, tutto quello che posso dirle ad oggi è:

“Non lasciarti abbattere quando chi ti guarderà vedrà in te soltanto ciò che vuol vedere; porgi la mano e conduci. Lascia che ti guardino, nuovamente, con i tuoi occhi.”

Francesca G.

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