“L’eleganza si ha quando una cosa corrisponde al suo concetto.” — Ines de la Fressange
“La vera eleganza infrange i divieti, anche quelli più sommi.” — Yukio Mishima
Un testo ostico, per non dire quasi illeggibile; la precisione e la pulizia tecnica di un regista enigmatico, più interrogativo che affermativo.
Un sogno rivoluzionario, proibito e geniale; la rottura totale con lo schema, la norma, l’ordinarietà, di un regista del tutto unico, e assolutamente inimitabile.
L’Ethica ordine geometrico demonstrata di Baruch Spinoza, e Krzysztof Kieslowski, da una parte; il dubbio radicale di René Descartes, e Gaspar Noé, dall’altra.
Paragoni impossibili.
Degna (speriamo) chiosa di una rubrica folle, volutamente pensata per avere tre articoli, e non uno di più. Nel primo, uno dei film più incredibili del decennio e il buddismo — di cui riparleremo. Nel secondo, Hillary Putnam e Matrix da un lato, il pacifismo e Doctor Strangelove dall’altro. Rubrica volutamente strutturata come quell’articolo da cui la nostra emergenza partì, e cioè con quel processo triadico di tesi, antitesi e sintesi usato dal buon Kant, reiterato da Fichte, e divenuto celebre con Hegel. La tesi: la bellezza stordente di un film che farà epoca e la saggezza abbacinante di una filosofia di pensiero che non invecchierà mai. L’antitesi: un lungo, a tratti ininterpretabile, flusso di coscienza, che costeggia l’utopia di un mondo perfetto, su basi terrene, mescendola alle opacità dei mondi “inumani” che qualche genio si è arrischiato a descrivere. La sintesi: buona fortuna.
Un bambino. Un ghiacciaio. La morte.
Una vespa. Un bicchiere. Una nuova vita.
Una bugia. Un ultimo tentativo di sopravvivere. La sopravvivenza.
Una lettera. Un fuoco. Una verità cancellata.
Un assassino. Un omicidio statale. La realtà: nessuna differenza.
Un taglio. Un rapporto di specchi. Una verità ribaltata.
Una figlia. Una mamma. La duplice rapina.
Una giornalista. Una professoressa. Una falsa finzione.
Un’impotenza. Una corporea brutalità. L’unica eternità: l’amore.
Un funerale. Un duplice ritrovamento. Una perfetta rappresentazione.
A legare tutto, un testimone silenzioso. Forse uomo, o Dio. Forse colui che vede, o colui che è visto. Forse tutti, o più probabilmente nessuno. Dekalog è questo: rigoristica dimostrazione di una perfezione stilistica, geometrica, enigmatica. Una verità profonda, celata ai più, ma mostrata inattaccabilmente, con la saldezza d’animo di chi è certo di star facendo una rivoluzione ma la modestia di chi è troppo grande per sentirsi un rivoluzionario. Dekalog è un’opera ereticale. Un unicum, nella storia del cinema — nessun precedente, nessun successore. Un diamante, in ogni sua caratteristica: pulito, elegante, rilucente; duro, coerente, tagliente; unico, raro, pregiato. La dimostrazione fattuale della possibilità umana di raggiungere la perfezione, e mostrarne tutte le sue più oscure profondità — del resto, che Kieslowski avesse “la rarissima capacità di drammatizzare le [sue] idee piuttosto che raccontarle solamente” non l’ho detto io, ma Stanley Kubrick.
È il 1970. Un piccolo Gaspar, a sette anni, vede per la prima volta 2001: Odissea nello spazio. In quel momento, decide: diventerò un regista. Trentadue anni dopo, nel 2002, esce il suo secondo lungometraggio. Molto più che un Memento sensato e ben realizzato (ma, certo, non a tutti l’impresa è egualmente riuscita), Irréversible è un’opera lirica di nichilismo e disperazione, ma anche amore per la vita e fuga dalle sue insensatezze. Di quattro anni successivo al film con una delle sequenze più belle della storia del cinema — un passaggio di dieci minuti che svilisce tutti gli autori di flussi di coscienza nella storia, Joyce escluso —, e cioè Seul contre tous, il film del 2002 inquadra, per 9 minuti e 51 secondi, con un piano sequenza francamente quasi insostenibile, una violenza sessuale. Senza musiche di dolore, luci sfumate, inquadrature che si allontano dai soggetti e altre reticenze varie à la Rai 1: solo realtà, crudezza, dolore, agonia. In una parola: stupro. Sette lunghissimi anni dopo, un film che si consegna di diritto alla storia del cinema: Enter the Void. Senza troppi timori, diremmo: la miglior rappresentazione cinematografica di cosa avvenga alla mente quando sviluppa un pensiero, una delle più acute riflessioni su vita e morte in quanto cicliche reiterazioni di effetti stordenti e incomprensibili all’essere umano, una delle migliori rappresentazioni di cosa sia, cosa significhi, e cosa implichi fare cinema. Passano sei anni, ed esce Love. Netflix, che di cinema non ne sa quasi nulla, lo definisce “porno d’autore”. Sbagliano: è, solo, una meraviglia. 141 minuti di amore. Amore eccessivo. Amore ridondante. Amore inconsolabile, nauseabondo, devastante. Amore cercato, trovato, umiliato. Amore, e cinema. Due corpi che si amano, e un figlio — questo film — da consegnare all’eternità. Nel 2018, esce una cosa — chiamarlo “film” sarebbe davvero riduttivo — che un unico regista al mondo avrebbe potuto anche solo pensare: mettere insieme una sceneggiatura di cinque pagine e un cast di ballerini senza alcuna esperienza recitativa, girare l’intero film in quindici giorni, impiegare quattro mesi per scrivere, girare e montare l’intero lungometraggio (in cui compare un piano sequenza di oltre un’ora — e uno vero, non con i tagli fantasma alla Sam Mendes), e ottenere una quasi surreale standing ovation a Cannes. Insomma: roba da pochi. Anzi: da uno solo. Da Gaspar Noé.
Ciao Baruch, come stai oggi?
Bene René, grazie. E tu?
Ho visto un film di recente. Una cosa immonda. Sostanzialmente, due tizi stanno insieme. Solo che ne provano di ogni: al posto che amarsi, coccolarsi, rispettarsi e progettarsi, cercavano qualunque esperienza. Rapporti a tre, orge…
Baruch, scusa se ti fermo, lo sai che un rapporto a tre sarebbe definibile come orgia in quanto rapporto sessuale di gruppo, vero?
Ah… No, in realtà no. Ma tornando…
E no che non ci torni al film, scusami. Sulla base di cosa lo giudichi immondo se non conosci nemmeno un suo elemento basilare? Proprio tu che, con altezzosità, affermavi di essere in grado di dimostrare tutto con un metodo assiomatico-deduttivo? Cosa avresti detto se avessi trovato in me — perché senza di me, lo sai, nessuno ti avrebbe letto — un errore di tal fatta? Dannazione, solo il tuo Deus sive natura lo sa! Prendi me, invece: io sono partito molto più modestamen…
René, scusa, ma non sei credibile. Cioè, perdonami: tu, quello del cogito, ergo sum, quello che ne Il mondo (titolo umilissimo, in effetti) individua il principio al quale tutti i fenomeni obbediscono, tu parli di modestia? Ma lo sai che della falsa modestia manzoniana tutti sanno tutto, vero? Perché pensi che per te valga diversamente?
D’accordo, d’accordo. Come che sia, caro Baruch, anche io di recente ho visto un film. Anzi, dieci. O meglio: dieci mediometraggi.
E cosa sono, scusa?
Assurdo come tutti ti ritengano modernissimo e ti studino molto più di me! Se solo ti vedessero come ti vedo io, quassù… Comunque: si definisce mediometraggio ciò che, per durata, sta tra il corto e il lungometraggio. Convenzionalmente, si parla di 40-45 minuti, ma teoricamente lo si può chiamare tale almeno fino ai 59. Ora posso andare avanti?
Sì, ma ti prego anche di finire, altrimenti loro si annoiano.
Certo, ma sei stato tu a interrompermi… Beh, in ogni caso: dieci storie apparentemente sconnesse, ciascuna valida per un comandamento. Molto interessante, ma gli mancava un po’ di verve. Però credo che a te sarebbe piaciuto: era preciso, schematico, quasi inferenziale direi — sì, dovresti proprio guardarlo.
D’accordo d’accordo, allora, senti, facciamo così: adesso torniamo nei camerini e ci scambiamo i DVD, poi domani qui sul palco ne parliamo di nuovo. Anche perché, ora che ci penso, quel regista così disinibito, violento e rivoluzionario, forse potrebbe anche interessarti…
Fu in quel momento che li stoppai. Schiacciai il tasto “pause”, e lo spettacolo si fermò.
Flettendo le ginocchia, mi alzai, e poi scrollai faticosamente le spalle. Chiusi gli occhi, per subito riaprirli.
A quel punto, camminai verso la cucina. Bevvi un bicchiere d’acqua, e lo appoggiai nel lavandino.
Ciò fatto, mi diressi nuovamente verso il divano. Con la consueta fatica di chi ha ventiquattro anni e trecentosessantaquattro giorni, mi sedetti. Feci per schiacciare il tasto “play”, ma poi qualcosa mi fermò.
Guardai l’orologio: le 23:50:51. A quel punto, capii. Mi restavano 9 secondi, prima di scomparire. Troppo poco tempo per pensare, ma scelsi comunque di dedicare quei brevi istanti di pensiero a quel dialogo folle e un po’ forzoso inscenato da quel regista che avevo sempre apprezzato, ma mai del tutto afferrato. Ricordo, vagamente, che avrei voluto chiedergli cosa c’entrassero quei due filosofi con i miei due registi preferiti, ma rammento, distintamente, che, per quanto non ricordassi dove, avevo già letto la risposta:
“Le cose sono unite da legami invisibili: non puoi cogliere un fiore senza turbare una stella”.
Federico
Caro Federico, ho visto (almeno in parte) tutti i film che citi, nel tuo pezzo elegante e acuto, come sempre.
Devo ammettere che almeno nel caso di Love condivido il giudizio di Netflix. Non tanto per le scene d’amore quanto per la loro irrilevanza: non so come dire è un film a mio parere senza anima e senza vestiti.
Ho molto apprezzato la citazione iniziale del grande Yukio, Il mondo del samurai che alla modernità preferisce la catarsi del suicidio rituale giapponese.
– Tesi (Yukio: valore, ideale di bellezza, rifiuto della corruzione della tradizione)
– Antitesi (Gaspar Noé: banalità del consueto, del consumismo fisico)
– Sintesi (Spinoza….. mah?! il suo panteismo deterministico, l’odine crudele del reale forse lo avvicinano più a Yukio che a Noè)
… ma è una mia impressione!
Grande prosa la tua e originalissima organizzazione di flussi temativi
Tuo
Lux
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Ogni volta rendi più belli i commenti degli articoli 😉
Grazie come sempre!
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