3 gennaio 2021, ore 16:33. La penna preme sul foglio, esibendosi in ghirigori articolati. Linee morbide e spezzate si alternano sulla neve. Segni incomprensibili a molti si riflettono negli occhi, che, concentrati, ne leggono la pronuncia, estrapolandone il significato. Hanzi — caratteri. Il sistema di scrittura cinese è affascinante e completamente diverso da quello di qualsiasi lingua europea. Faccio per riprendere a scrivere, ma il pensiero arriva, improvviso e inaspettato, e subito si tramuta in visione.
3 gennaio 2020. Sono seduta alla scrivania, a occhi chiusi ondeggio lievemente nel tepore della stanza che si diffonde dal calorifero, intenta a vivere mentalmente una storia di mia invenzione basata su personaggi di serie e film che in questi giorni ho visto. Come in una pellicola: le scene si susseguono e il tempo passa. Così, immobile, evadendo quotidianamente da una realtà così vomitevolmente monotona ed esasperatamente nauseante, trascorro i giorni. Soltanto un enorme buco fagocitante svuotato di qualsiasi consistenza. Un’esistenza vuota, passiva, inscatolata, rattrappita, desolata.
Guardando indietro stento a riconoscermi. Un anno fa pensavo solo a come sfuggire alla mia vita, ignorando completamente me stessa, l’università e buona parte delle persone, salvo qualche rara eccezione. Le emozioni si erano appiattite nel silenzio di una superficiale indifferenza, volta a evitare la sofferenza. Non mi ero mai sentita tanto distante da un qualcosa di vivo. Un anno dopo mi vedo intenta a preparare i primi due esami della sessione invernale, sorridente e (relativamente) serena. Mi vedo decisa a perseguire il mio bene e quelle che penso possano essere le mie potenzialità. Mi vedo circondata da persone che mi vogliono bene e che mi sostengono e che, in un certo senso, ho “scelto” di avere accanto. Oggi, vivo. Ieri, vegetavo.
Ma come può essere stata la stessa persona? Com’è possibile che sia stata due versioni di me diametralmente opposte? Cosa significa la diversità di essere se stessi?
Domande come queste si affollano, spingono, accalcandosi nella mente e il pensiero sgorga.
Significa cambiare. Significa prendere in mano la propria vita e stravolgerla. Significa, anzitutto, avere il coraggio di essere la persona che si è. Significa rispondere alle proprie caratteristiche, difendere le proprie idee, coltivare i propri interessi. Significa non fermarsi mai, perseguire le proprie potenzialità, ampliare i propri orizzonti. Essere in continua ricerca. Significa vestire i propri panni, silenziando tutte le voci che inneggiano all’omologazione e tutte le voci che costringono alla necessità di distinguersi dagli altri. Un continuo oscillare tra due poli: fare quello che fanno tutti, secondo una linea di pensiero comune dettata dalla società, che — guarda caso — molti sostengono coincida con il loro punto di vista, e fare quello che non fanno tutti, distinguendosi dalla massa, mostrando agli altri le prerogative della propria personalità, ostentando orgogliosamente la volontà e la necessità di essere diversi essendo se stessi. Negli ultimi anni si è assistito a un cambio di direzione per quanto concerne l’immagine di noi che diamo agli altri: specialmente sui social, accanto alla tendenza di mostrare solo cose positive — foto venute bene, look particolarmente attraenti, successi personali e lavorativi… — che non di rado sfioravano una paradossale edulcorazione della realtà, in una sorta di dittatura dell’eudaimonia, si è sviluppata la tendenza a mostrarsi senza più filtri, nella spontaneità della vita di tutti i giorni, con un’attenzione sempre minore all’aspetto fisico e alle imperfezioni del corpo e della pelle — che invece vengono elevate a simbolo della rivendicazione della libertà di essere se stessi, e prova del benessere scaturente da questo. Ma qui ci sarebbe da aprire un altro capitolo inerente ai social e all’influenza che hanno sulla società. Quello che stimola il mio pensiero è che anche questa tendenza a una maggiore spontaneità, e all’esaltazione della propria unicità e diversità, non è esente dal diventare sempre più invasiva e dominante, né che questa possa codificare determinati comportamenti sociali considerati come più accettati e connotati come prestigiosi. In altre parole, sì alla promozione della diversità intesa come unicità che contraddistingue ciascuno di noi, ma attenzione a non farla diventare l’ennesima moda che alimenti una ricerca spasmodica delle proprie peculiarità, con la conseguenza del possibile sviluppo di un atteggiamento depressivo nei casi in cui il singolo non riuscisse a identificarle. O ancora, con la conseguenza di creare artificialmente delle caratteristiche da attribuirsi e da mostrare agli altri. È chiaro come sia impossibile condurre un’esistenza isolata e non sottostante all’influenza della società. Essere se stessi — o meglio, essere diversi nell’essere se stessi — diventa, allora, l’opzione migliore se si ragiona in direzione di un benessere interiore. E solo sperimentando questo, interrogandoci e riflettendo, con l’umiltà di mettere in dubbio la persona che siamo, potremo capire se quella persona risponde davvero alle nostre caratteristiche. Siamo noi, e noi soltanto, che possiamo vestire i nostri panni.
Ho detto che fatico a riconoscere la me del passato, perché il cambiamento è stato rivoluzionario.
Ieri, vegetavo. Oggi, vivo.
E se tutto questo è stato possibile, lo devo in primis a chi mi ha preso per mano e mi ha mostrato la persona che sono e quella che potrei diventare, e secondariamente (ma non per importanza) a me stessa — perché ho scelto di cambiare, ho scelto di essere diversa da come ero, ho scelto di affrontare il senso di estraneità che ogni volta mi invadeva quando vestivo i miei panni. Non è stato facile. Non è facile. È un percorso senza fine. Ma in ogni caso la vita va avanti.
E solo noi possiamo sapere quanto siamo disposti a sopportare il peso di un eventuale rimpianto per non averci provato.
Anna Lanfranchi