Giulia, nel nostro editoriale c’è scritto che hai più di una volta sentito il peso della diversità e del tuo essere diversa. Vuoi parlarmi un po’ di questo?
La diagnosi medica che mi ha messo a conoscenza del fatto di essere dislessica — oltre ad altre problematiche di carattere sanitario — non mi ha spaventata: ho accettato senza difficoltà la mia condizione. Sostanzialmente le diagnosi sono state la scientifica spiegazione medica di una condizione di difficoltà che è emersa da subito in ambito scolastico e di cui io e i miei genitori non eravamo a conoscenza.
Conosco ragazzi dislessici che nascondono la loro condizione e genitori che invece non la accettano in quanto non conoscono il problema, assimilandolo a un più banale atteggiamento di indolenza scolastica; e così, come in altri contesti, non vengono accettate altre diversità più evidenti, come la disabilità fisica ed intellettiva.
Nel mio caso, pur avendo accettato la mia diversità, i limiti imposti in campo scolastico a volte mi pesano e mi mettono i difficoltà.
Ci terrei a dire questo: la dislessia non è una “malattia”, ma una “condizione”.
Purtroppo la dislessia a volte mi ha esposto a giudizi superficiali da parte dei compagni di scuola, soprattutto nelle scuole elementari fino alle scuole medie, e una conseguenza è stata, fin da piccola, una mia più facile interazione con gli adulti piuttosto che con i miei coetanei.
In una conversazione privata, mi hai detto che non ti sentiresti te stessa a stare sui social network. Vuoi spiegare ai nostri lettori come mai?
L’utilizzo dei social non è una attività che attualmente apprezzo, in quanto considero che lì si manifestino superficialità di contenuti e, talvolta, violenza verbale; preferisco, quindi, mantenere relazioni dirette, piuttosto che attraverso i social. Altro aspetto negativo che noto è l’evidente esibizionismo, ma anche se non posso certo considerare che tutti approvino la mia scelta, tuttavia attualmente non vedo buoni motivi per condividere gli aspetti della mia vita sui social.
È chiaro che i miei rapporti sociali in questo momento siano mantenuti attraverso la rete, ma in questo caso le ragioni sono legate alla attuale pandemia, quindi la mia rappresenta una scelta di necessità.
Come tu stessa hai detto, ciò che innerva i social, e che riguarda molto anche il tema della diversità, è l’apparenza. Tu che idee hai sull’apparenza?
Spesso noto che la maggior parte delle persone cerchino di uniformarsi a un modello — e questo, secondo me, è un errore. È necessario conservare la propria autenticità (aspetto che raramente riscontro nei miei coetanei), e se oggi l’apparenza è molto importante nella società — e purtroppo lo è — credo invece che sarebbe bene dar lustro all’unicità di ciascuno di noi, non vergognandosi di manifestarla.
A questo proposito, cioè sull’assomigliare a se stessi, Anna Lanfranchi — in un articolo già pubblicato — e Francesca Giudici, in un testo che uscirà fra pochi giorni, hanno dato due sfumature al tema: Anna nel tentativo, e nelle difficoltà connesse, di riuscire a essere davvero se stessi; Francesca, senza anticipare troppo, nell’accettazione di alcune sue caratteristiche nonostante la pressione esterna ricevuta. Le due riflessioni, insomma, si completeranno nel mostrare la difficoltà e il coraggio che serve per essere se stessi, che è una dimensione che da questa intervista esce molto. Cosa ti senti di aggiungere su questo?
Da una parte, ritengo sia naturale che ciascuno si adatti a ciò che lo circonda; dall’altra, trovo fondamentale mantenere un limite al conformismo, alle sovrastrutture che il mondo ci impone. D’altro canto, trovo importante manifestare liberamente e naturalmente la propria personalità, troppo spesso condizionata dalla società in cui viviamo. Ritengo che il mondo oggi induca l’uomo a essere uniforme a un modello costruito ed è proprio da questa situazione che poi scaturiscono molte delle difficoltà di accettazione di sé.
Per quanto riguarda me, considero che l’accettazione di me stessa sia stata naturale e priva di significative difficoltà. In questo, credo che avere come esempi persone che sono riuscite ad accettarsi e, contemporaneamente, a inserirsi nel contesto sociale sia indubbiamente di grande aiuto.
Andiamo verso la fine del nostro dialogo. Di nuovo, in questa tua ultima risposta, hai menzionato la serenità con la quale sei riuscita ad accettare delle caratteristiche che, riportate dall’esterno, potrebbero essere viste come limiti e difficoltà non da poco. D’altro canto, sono molte le persone che, pur non avendole, hanno davvero problemi nell’accettarsi — cosa a cui hai anche appena accennato. L’unica differenza fra te e loro è quel che hai appena detto (cioè, grosso modo, nel ruolo giocato degli esempi) o c’è altro che credi possa distinguerti dagli altri in questo processo di accettazione?
Credo che si possa dire che io, in realtà, non mi sia mai accettata — quantomeno non nel senso stretto del termine: non ho affrontato un “percorso di accettazione”. Ogni difficoltà nelle relazioni sociali, infatti, l’ho sempre superata lavorando su me stessa, poco alla volta, con consapevolezza, con un ragionamento che potrebbe suonare in questo modo: “se la vita mi propone questo, ci dev’essere un motivo”.
Per quanto riguarda le persone che hanno favorito questa serenità di cui ti sto dicendo, credo che un ruolo fondamentale lo abbia giocato la famiglia. I problemi nella vita purtroppo ci sono, e ogni persona affronta le sue difficoltà, ma, se ciascuno di noi si impegnasse nel viverle positivamente, credo che le relazioni sociali sarebbero molto più serene. Ritengo che molti ragazzi, oggi, si vergognino delle loro debolezze, soprattutto a causa di una società che mi sembra valorizzare più l’aggressività e la determinazione incondizionata che non le fragilità di ogni individuo.
Credo invece che sia opportuno imparare a fare della diversità un valore aggiunto: se così fosse, ciascun individuo sarebbe agevolato in questo processo di accettazione di sé; purtroppo oggi la società vuol nascondere ciò che non appartiene allo “standard”, e in alcuni contesti si reputa che la diversità nasconda un contenuto sconveniente. Io ritengo che ciascuno di noi possa essere un esempio positivo, ma — come ho detto — avere il coraggio di considerare la diversità come (e sempre) un valore aggiunto, oggi rappresenta un problema non da poco, e purtroppo questa considerazione sembra essere minoritaria.
Ho, di recente, letto due frasi che ho trovato davvero di grande valore, e che ora ti propongo (insieme a una terza che, idealmente, le completa) come riflessione con la quale chiudere questo nostro dialogo. La prima è di Jonathan Davis: “Voi ridete di me perché sono diverso, io rido perché siete tutti uguali”. E se la seconda, invece, è un proverbio cinese forse non notissimo — “Finché non saprai perdonare l’altrui diversità, sarai sempre lontano dalla via della saggezza” — la terza è una delle più famose citazioni di Nietzsche: “E coloro che furono visti danzare vennero giudicati pazzi da quelli che non potevano sentire la musica”. Come commenti ciascuna di queste e in che modo credi siano legate?
Sono tre frasi importanti, che mi hanno molto colpito. Tutte mostrano come chi è, e si sente, diverso, spesso sia in anticipo sui tempi: come emerge dal combinato disposto della frase di Davis e da quella di Nietzsche, molti grandi uomini sono stati giudicati pazzi e sono stati messi all’angolo per qualche loro difficoltà. Spesso, queste persone, in seguito, sono state considerate successivamente geniali —pensiamo per esempio ad Einstein, anche Lui dislessico, ad Alessandro Magno, che era epilettico, e così via….
Diversità, dunque, è particolarità unica e credo che ciascuno debba mantenere la propria diversità.
Per quanto riguarda il proverbio cinese, credo che il termine “perdonare” sia fuori luogo: la diversità va semplicemente accettata, e quindi mai perdonata:non è una colpa, un peccato o una pena da espiare.
Potrei concludere rielaborandolo così: non c’è saggezza senza accettazione della diversità.
Bottega di idee*
*N.d.R.: la firma a nome del blog, nonostante l’intervista curata — come segnalato nel nostro editoriale — da chi vi scrive ora, è tesa a un distanziamento tra il testo qui esposto e il sottoscritto; questo, ovviamente, non perché quanto scritto qua sopra venga rigettato dall’autore dell’intervista, ma perché — in seguito a una serie di dinamiche che sarebbe pleonastico riportare in questa sede — troviamo più corretto ascrivere l’intervista che avete appena letto al blog nella sua interezza e non al suo redattore.
Grazie a chi è arrivato fin qui nella lettura,
Federico.