Vorrei dire tante cose, dovrei dire tante cose. Certi pensieri rimangono a galla, anche quando ci crediamo diversi. Come nell’estate che ha preceduto quest’inverno, per la prima volta mi sono sentita Donna, adesso indietreggio e poi avanzo come il caro Saltatempo; sono infantile, sono infatuata e ansiosa per la vita che mi aspetterà. Non so da dove cominciare, tiro fuori una vecchia poesia che fa:
“Innamorata dei segreti buoni,
come mani che su sedili di tram sudici
si sfiorano
gambe che si baciano
perché le labbra restano mute.” – 27 novembre 2017
Gli adolescenti del paese rimangono adolescenti più a lungo dei ragazzi di città. C’è una permanenza d’infantilismo nei tratti, nelle parole che essi dicono; siamo riconoscibili, lontani anni luce, perché conosciamo solo quel che conosciamo. Ci muoviamo a scatti, nevrotici e smaniosi di scoprirci diversi. Mamma ci chiama tutte le sere ma non sa cosa accade dall’altro capo del telefono, per questo ci sentiamo onnipotenti. Onnipotenti come la forza di quei cori dentro la chiesa ortodossa, proprio all’angolo della strada. I ragazzini a briglia sciolta lungo tutto il quartiere ricordano abeti cresciuti nelle intemperie del tempo; sono antichi ma nuovi sotto lo sguardo di anziani dal profilo ingobbito e gli occhiali sempre storti.
Era il mio primo anno altrove, in una città che cambia radicalmente i fatti senza scendere a compromessi col suo interlocutore. Ti sgretola come un biscotto per lasciare briciole di te tra i sampietrini. Io, quelli di San Giovanni, me li ricordo bene; il tempo di una svolta e te li ritrovavi sotto i piedi, così finivi per guardarti le gambe e sentirti leggera, ciondolante tra un pizzaiolo e l’ennesimo bar dalle insegne sgangherate. Sulle spalle indossavo zaini di carta con dentro tre cose: un diario, una stilografica e un paio di cuffie. Dalle colazioni sotto casa mi dileguavo svelta, salutando la mia nuova famiglia e lanciandomi in scopi che lì per lì trovavo privi di senso.
“Sei andata in università?”
“Certo, ma’!”
Finivo invece dentro un cimitero monumentale a due passi dai varchi, a leggere epigrafi per capire come il tempo mi avrebbe ricordata. Forse non l’avrebbe fatto mai, mi dicevo allora, forse mi avrebbe persa nel respiro delle generazioni.
Dalle mie parole qualche stortura dialettale, le mani sempre fredde intorno a una tazza di ginseng – il caffè è da evitare, quando soffri di tachicardia – e un fungo alle spalle di lei. Vedevo solo gli strass della sua maglietta, non trovandovi alcun punto d’incontro con me, che vestivo sempre di nero e di nero avevo scelto persino i miei tatuaggi. Ciononostante, la conversazione filava bene; scioglievo e rilegavo i capelli più volte, avevo l’aria da ribelle ma l’ansia, da anni, mi aveva privato delle follie. Mi ero preparata così tanto, prima di finire lì… Mi avevano dato l’okay prima di uscire di casa; il cappotto di Pifebo l’avevo comprato perché dentro mi ci sentivo una scrittrice, la camicia l’avevo strappata di lato perché la commessa s’era scordata l’anti-taccheggio. Sono i piccoli errori di percorso, forse, che ci conducono dove finiamo. Non le limature, ma le pieghe sui vestiti, le incrinature di una statua che di appuntamenti come il mio ne aveva visti già tanti.
Chiedetemi, adesso, se un posto nel mondo mio c’è, chiedete agli abeti se resto, se un posto è rimasto per me.
Per strada camminavo in discesa, oltre le fronde dell’alberata era notte. Avevo fretta di raccontare, ma volevo dire tante cose. Da dove potevo iniziare? Dalla statua, forse? O dalle lucine al led del Caffè? Certamente avrei raccontato del cameriere che, all’oscuro di tutto, aveva tentato un approccio.
Ho iniziato la mia vita così tardi, mamma, che adesso mi sento sola. Mi sento sporca, in colpa e sola. E sui sampietrini non mi sento più leggera, ma carica di un fardello gravoso. Potrei posarlo sopra i tavolini del mio bar, io incosciente e lui incustodito, ma non reggerei l’idea di non potervi vegliare sopra. E’ il mio segreto più caro, e adesso che inizio a vivere, ancora adolescente tra le pieghe dei miei anni, penso che forse non dovrei.
In tram avrei interpretato il silenzio come una pena capitale. Gli altri, invece, si sarebbero stretti assieme e senza filtri. Quando nasci “diverso”, immagini uno spazio che divide te dal resto del mondo. Pensi che se da un lato questo ti rende speciale, dall’altro, in quanto cresciuto a pane e insicurezze, ti senti solo sgretolabile. Ti ritroveranno per giudicarti o per accoglierti? Ogni volta che ti racconti, è una domanda che non puoi evitare di porti, persino adesso. Ogni volta che scegli di azzerare gli spazi tra te e i fantomatici altri, non puoi evitare di guardarti intorno. I baci, spesso, rimangono solo sguardi, e le distanze – per scelta – incolmabili.
Il 27 novembre del 2017 scrivevo di chi ero, senza saperlo ancora. Non lo so neppure adesso. Tutte le mattine mi lavo, mi vesto, e vado avanti. Quattro anni dopo, posso dire di sentirmi più accolta che giudicata; non ritrovata, no, non voglio esserlo. Mi basta essere come sono, combattere a fatica l’istinto di nascondermi, sfiorare un paio di mani quando e come voglio, perché ho capito che spesso, per educare gli altri, dobbiamo prima educare noi stessi.
19 gennaio 2021
A distanza di anni mia mamma mi abbraccia quando ho il cuore spezzato, mi asciuga le lacrime, consapevole che non esistono amori diversi dagli altri. Io ho fatto passi da gigante e il tempo mi sembra trascorso con uno schiocco di dita. Penso che forse avrei dovuto raccontare una storia più bella, meno mia, ma anche quanto scrivo fa parte del mio percorso.
Siamo nati per crescere; tutti nudi e distinguibili soltanto per chi ci ama. Bisogna che ci conoscano bene e che ci vedano diversi, ma soltanto perché unici – come anche gli altri del resto.
Ad oggi, per strada, mi dico che sono felice così.
Non ho più niente da nascondere, non so più dove nascondermi.
Francesca G.