L’illustrazione di Virginia (tocca per ingrandire) L’illustrazione di Althea (tocca per vederla più in grande) L’illustrazione di Clara (tocca per ingrandire)
Gli avvenimenti della nostra vita sono come le immagini del caleidoscopio nel quale ad ogni giro vediamo una cosa diversa, mentre in fondo abbiamo davanti agli occhi sempre la stessa. — Arthur Schopenhauer
Edmund Husserl, con un linguaggio un po’ dotto ma facilmente smontabile in pezzi più comprensibili, sosteneva che noi percepissimo, per esempio, un libro nel modo del suo come. Cosa intendeva dire? Che, in ogni singola scena percettiva (cioè, grossolanamente, in ogni momento in cui percepiamo uno stesso oggetto), quel che cogliamo è l’oggetto, sia pure in una sua manifestazione particolare. Il libro di cui sopra, dunque, diventa un oggetto che si costituisce, momento dopo momento, nella sua percezione, all’interno della quale può cambiare — per dirla più semplicemente: come di un personaggio all’interno di un racconto conosciamo l’identità e le caratteristiche, ma non per questo il suo destino nella storia, così funziona per il libro che stiamo percependo1: noi lo percepiamo così, in questo modo, ma questo non significa che non possa mutare in (o addirittura essere, se la storia fosse un’altra) qualcosa di diverso. Ecco dunque, in un lessico molto meno preciso ma anche meno oscuro, cosa intendeva dire il filosofo austriaco: quando si dice che percepiamo qualcosa nel modo del suo come, si sta sostenendo che quel qualcosa che percepiamo è come un personaggio che, di pagina in pagina (cioè di percezione in percezione), si arricchisce e per questo muta, pur rimanendo sempre se stesso.
È in questo contesto che vorrei inquadrare le tre illustrazioni di cui sopra. Prendete, per esempio, quella di Clara: nell’immagine sono perfettamente leggibili le singole parole, magari anche alcune frasi, ma il contesto si modifica costantemente. Nella proposta di Althea, invece, un mare scuro di ricordi insegue un soggetto in fuga dal passato ma anche molto timoroso nei confronti di un futuro non necessariamente benevolo, che si ritrova in quella di Virginia, dove il passato va sbiadendo, in una perdizione che è dimenticanza, e il presente, costituito da cassetti chiusi rappresentanti ricordi volutamente obliati, viene osservato da un soggetto contemplante, anche se forse non del tutto passivo.
Cosa emerge, sovrapponendo ciò al discorso su Husserl? Che, in un mondo che è immagine, velocità, frammentarietà, ricordare qualcosa sia obiettivo utopico, anche se fosse desiderato: è nel travolgimento del contenuto a favore dell’immagine, nella continua riproposizione di stimolazioni immaginative e immaginarie, che l’istantaneità del simbolico finisce per prevaricare, continuamente, la profondità del reale.
Se è solo perdendomi nell’abisso che ho la possibilità di trovare l’acqua che sono, per dirla altrimenti, ciò che accade oggi è che uno tsunami di immagini, notizie, e stimoli, ci impedisce anche solo di avvicinarci alla riva che prelude alla scoperta di noi stessi. E quel che emerge unendo la visione husserliana alla sconvolgente velocità del reale, è, credo, quanto segue: non solo percepiamo una moltitudine di stimoli che ci impediscono, come dicevo, anche solo di avvicinarci a noi stessi ma anche, percependoli nel modo del loro come, non abbiamo mai un afferramento reale di ciò che percepiamo.
Wittgenstein, nelle Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, scriveva che nel momento in cui, in sua assenza, bacio il nome (o una fotografia) dell’amata, allora è chiaro che io stia proiettando su quel foglio, o su quello scatto, la persona da esso ritratta2. Questo esempio torna utile perché, io credo, è esattamente quel che noi facciamo ogni giorno: vediamo una storia su Instagram, leggiamo un post di Facebook, veniamo raggiunti da una notifica di Google e, come risposta, proiettiamo, su ciò che riceviamo serialmente (non sono io che ricevo, ma tutti che riceviamo), qualcosa di personale, proprio a causa della universalità che ci sopraffà di volta in volta: dal momento che, inconsciamente, quel social domina la mia vita proprio come quella degli altri, almeno che sia la mia vita! È questa la logica, io credo, che sta dietro alla facilità con la quale riempiamo i social media di informazioni nostre, private e personali.
Come combattere questa tendenza — volutamente orchestrata da chi, le informazioni, le conserva — alla dimenticanza, alla svalorizzazione del ricordo e al suo inquadramento come ciò che viene superato dall’attualità e dalla modernità? In un solo modo, perlomeno secondo chi scrive: istituendo, ciascuno con i propri mezzi, una vera e propria politica dell’immagine. Una politica che abbia un’unica direzione, e molteplici vogatori a spingere, all’unisono, verso l’unica meta: l’approfondimento delle notizie ricevute in forma di titoli riassuntivi e spesso infondati; il rallentamento delle nostre vite, facendo della lentezza e della riflessività non un difetto da irridere ma un obiettivo verso cui mirare; la continua riscoperta del significato delle immagini che vediamo, e l’elevazione di questa rispetto a un certamente rispettabile, ma indubbiamente banalizzante, atteggiamento di gradimento o meno nei confronti di ciò in cui ci si imbatte nelle virtuali peregrinazioni dell’Internet.
Judith Butler, commentando il ben noto articolo della Costituzione americana We, the people, sosteneva che non avesse molto senso dir così, giacché sempre si individua qualcuno, con questo we, e così facendo si esclude qualcun altro, rinnegando quel the people dalla pretesa tanto universalistica3. Secondo lei, il semplice essere insieme dei corpi (questo sì) andrebbe incentivato — il che, usando questo discorso come una metafora, qui può esser tradotto così: è probabile che la politica dell’immagine appena accennata sopra non basti, anche intrapresa da tutti, per un rovesciamento dei termini, cioè per una conseguente importanza assegnata al ricordare e alla memoria. Ma questo non basta nemmeno, inversamente, per non intraprendere questa politica, giacché il suo semplice esserci produce, come conseguenza, una sensibilizzazione di tutti e di ciascuno sul tema.
Ed è questo, in conclusione, che spero possa esser passato a chi, ora, stesse scorrendo questo righe: che se tutti, armati di pazienza, riscoprissimo l’importanza della lentezza e della profondità, formando una social catena già da secoli richiestaci da chi è più saggio di noi, allora un giorno potremo trovarci a ricordare, grazie alla memoria, quel che ora viviamo come attualità.
E, ricordando dei giorni nostri, magari anche con leggerezza, afferreremo di quanto ci illudessimo a considerare rivoluzionario quel presente, quel virus, e quella tecnologia, e di come in realtà non fossero null’altro che la ruota dei Sumeri, la polvere da sparo dei cinesi, o il Macintosh degli americani. Perché, come sapientemente diceva Schopenhauer,
Gli avvenimenti della nostra vita sono come le immagini del caleidoscopio nel quale ad ogni giro vediamo una cosa diversa, mentre in fondo abbiamo davanti agli occhi sempre la stessa.
Federico
1 Per questa ricostruzione, spero non troppo imprecisa, vista estesamente, e per l’esempio senz’altro molto efficace del libro, si veda P. Spinicci (cui devo molto) nel suo Lezioni su due paradossi della percezione, pp. 200-202 (pdf)
2 L. Wittgenstein, Note sul “Ramo d’oro” di Frazer, p. 21 (pdf)
3 J. Butler, L’alleanza dei corpi, Figure Nottetempo, 2015, p. 263
Daniel Kahneman ha pubblicato nel 2011 Thinking, Fast and Slow. E’ arrivato in italia nel 2018 con il titolo di Pensieri lenti e veloci. Kahneman è uno psicologo israeliano, Nobel per l’Economia nel 2002.
Il suo libro con esempi concreti tratti dalla vita di un consulente di finanza evoluta, dimostra come la riflessione e il prendere tempo non sia sprecare tempo ma guadagnarlo.
E’ un libro che consiglio: in termini semplici sviluppa ed ampia il tuo ragionamento. Possiamo fare bene le cose solo prendendoci il tempo necessario per pensarci su.
Non credo che questa lentezza cercata diventi uno svantaggio in un mondo che corre tanto veloce. Veloce quanto? beh, c’è un limite invalicabile anche per il ‘calcolator dei calcolatori’. Ed è la velocità della luce (sic!)
La tecnologia ha un punto finale, lì.
Vale lo stesso limite anche per il nostro pensiero? C’è un limite alla nostra capacità elaborativa come esseri umani?
La biochimica del vivente corre ad una velocità infinitamente più elevata rispetto a quella di qualunque elaboratore. Semmai il limite è esterno, la necessità della mente di elaborare informazione elaborate troppo lentamente. Ma non è qui dove volevo arrivare.
Come esseri umani aspiriamo non solo alla social catena ma anche al tempo -il più dilatato possibile- per goderne.
Ma il senso della vita è diverso dal caleidoscopio: è una continua sorpresa. Irripetibile: sorry, Mr. Shopenhauer
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