Il viaggio è un concetto molto antico, presente in ogni secolo e in ogni popolo. L’atto di spostarsi è quasi insito nella natura umana, rappresenta la ricerca di qualcosa di più. Non è un caso, infatti, che Dante abbia scelto proprio Ulisse, il viaggiatore per eccellenza, per rappresentare anche la sete di conoscenza.
“Viaggiare non è vedere nuovi posti, ma avere occhi nuovi” scriveva Proust. Effettivamente, il movimento esteriore spesso è parallelamente accompagnato da un movimento interiore. L’allontanarsi da casa, in effetti, nel romanzo di formazione moderno rappresenta la prima tappa della crescita personale del protagonista e rappresenta materialmente quello che egli sta sperimentando spiritualmente.
Il viaggio è qualcosa di molto importante per la nostra natura; e nell’ultimo anno ci siamo visti tutti impossibilitati ad affrontare tale attività. Ciò, non è stato piacevole per nessuno, e anzi tutti aspettiamo solo il momento in cui sarà possibile ricominciare di nuovo a fuggire dalla nostra realtà. Chi viaggia per lavoro e per studio può continuare a farlo, ma ormai anche solo l’idea di allontanarsi dalla propria casa spaventa davvero quasi tutti. Muoversi è diventato pericoloso, quasi spaventoso.
L’idea di allontanarsi provoca ansia e preoccupazione.
Nono sono però emozioni nuove, anche l’antichità, come al solito, ce ne parla.
Nel mondo mediterraneo antico, spostarsi non era semplice come oggi. Salire su una nave equivaleva a un 50% di possibilità di non tornare mai più. Nonostante gli altissimi rischi che comportava, la mobilità mediterranea antica era intensissima. Ci si spostava per ragioni commerciali, militari e sacre.
Consultare l’oracolo di Delfi, partecipare alle Olimpiadi, assistere alle Grandi Dionisie ad Atene erano validissimi motivi per viaggiare lontano. Le reti commerciali erano fittissime e frequentatissime, e avevano messo in comunicazione la Spagna con il Libano, l’Egitto con la Magna Grecia… e infine, i mercenari greci andavano ovunque ci fosse una guerra.
Per la maggior parte dei civili, però, allontanarsi da casa sarebbe stato soltanto un vago pensiero — ed è probabile che sarebbero morti senza vedere altro luogo rispetto a quello natio. Emigrare era una decisione importante, quasi sempre dettata da una necessità estrema: lontani dalla loro città, essi non avrebbero avuto più diritti e più nulla.
Per gli aristocratici, viaggiare era troppo scomodo e allontanandosi troppo i loro privilegi potevano perdere la loro importanza. Per questo i più alti ceti si spostavano solo per ragioni politiche e in luoghi dove sapevano di avere amici a loro legati da un rapporto di Xenìa.
L’esistenza stessa della Xenìa (letteralmente “ospitalità“) è un segnale di quanto fosse antica la necessità di viaggiare e allo stesso tempo la paura di farlo.
La Xenìa era infatti un tipo di rapporto particolare, intrattenuto dagli aristocratici delle varie poleìs, per creare alleanze ed avere protezione. Solitamente le famiglie interessate si scambiavano doni preziosi e il rapporto di amicizia sopravviveva di generazione in generazione, proprio per assicurare un appoggio esterno a entrambe le fazioni. Si dimostra, dunque, come fosse necessario creare legami internazionali che garantissero la sicurezza dello spostamento, riconosciuto come attività molto pericolosa.
Oggi, viaggiare è considerato uno dei modi più efficaci per creare un’identità, crescere e scoprirsi. È anzi quasi necessario, se ci si vuole formare nelle competenze più varie. Ciò potrebbe far cadere nella convinzione di perdere qualcosa durante questo periodo, di aver sprecato un anno chiusi in casa senza alcuna possibilità di confronto e crescita. Anche in questo caso possiamo interpellare gli antichi — che, incredibilmente, hanno già una risposta per ogni nostra domanda.
Caelum, non animum mutant qui trans mare currunt (“Non mutano il loro animo, ma solo il cielo [sopra la loro testa] coloro che attraversano il mare”), scriveva Orazio nelle sue Epistole; e Seneca ne riprendeva il pensiero, scrivendo a Lucilio che Animum debes mutare, non caelum (“Deve mutare il tuo animo e non il cielo”).
Seneca sosteneva che chi sentiva sempre il bisogno di spostarsi e di andare lontano, in realtà celava nel profondo un animo inquieto. Qualcosa di irrisolto che fa agitar l’uomo lo spinge a cercare una risposta al di fuori di sé. Eppure, anche spostandosi, l’individuo in questione non trova la pace, trova un temporaneo sollievo. Non si può infatti fuggire da sé stessi, poiché il nostro cuore è sempre con noi. Effettivamente, per gli stoici tutto ciò di cui ognuno ha bisogno è già dentro di sé. Per esempio Biante, uno dei Sette Savi, mentre la sua patria Priene era conquistata dai nemici, fuggiva senza nulla, mentre tutti si affrettavano a recuperare quanto più potessero dalle loro case. “Omnia mea mecum porto” (“Tutti i miei beni, li porto già con me”), rispose a chi gli domandava perché fuggiva a mani vuote.
Il saggio è allora colui che scava nella sua profondità, e poiché l’anima ci accompagna ovunque, possiamo esplorarci in qualsiasi luogo, anche nella nostra casa. Ciò ci può consolare, suggerendoci come la vera pace si trovi nell’interiorità.
La felicità, la soddisfazione e la serenità nascono tutte dentro di noi, anche quando ci sembra molto poco probabile. Certo, l’essere umano è un “animale sociale”, ha bisogno di compagnia e contatto, confronto e amicizia, ma non sarà negli altri, né tanto meno in altri luoghi, che troverà il suo equilibrio.
Anche in momenti tristi e difficili come questi, leggere le parole degli antichi autori mi dà molto conforto.
Ci parlano da un passato lontano, ma ci parlano di cose che fanno parte del nostro presente.
Hanno conosciuto il cuore umano e si sono fatti mille domande, dandosi ancor più risposte.
Sono come amici fidati che non ci abbandoneranno, proprio perché chi li ha letti li porta nel cuore.
Ci dicono che tutto dipende da noi e da quanto siamo in grado di capire noi stessi e gli altri.
Laura
Complimenti per l’articolo!
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