Lettera a mio padre

Il testimone

Caro papà,
ti scrivo da un posto chiamato futuro
Ce l’hanno consegnato in fretta e disastrosamente, senza aspettare. Ti ha colto di sorpresa una notte di tanti anni fa, quando mi svegliasti di soprassalto e io penzolai dal mio soppalco con le sembianze di una scimmia. 

Nel tuo tempo ho sette anni, e tu appena quaranta. Sembri più vecchio nel tuo tempo che nel mio; il tuo corpo, ai miei occhi di bambina, sembra sempre sporco, pieno di polvere incapace di depositarsi. La mamma non sa bene dove riporti, e forse non lo sai nemmeno tu. Sopra una mensola sembreresti d’impaccio, sotto le scale, tra le mie coppe, risulteresti antico e fuori luogo. 
Così sei rimasto nelle mie stanze, polveroso e disperato. Ti sei mosso annaspando, ingigantendo le pareti con la tua presenza. Io, dal canto mio, non sapevo cosa fare, tu non sapevi come accogliermi. E’ difficile avere una figlia difficile e un padre che le somiglia tanto. Tutti pensano che siano i figli i diretti discendenti di un genitore, ma quante cose hai ripreso da me? E quante cose ti ho insegnato io, nel tentativo di avvicinarti?

Per tanto tempo, papà, mi sono sentita un’orfana. 
Avresti dovuto sentire coi miei occhi, vivere col mio cuore, per capire da dove provenivo. Avresti dovuto raccogliere il mio bastone magico e sventolarlo al vento, scalare le montagne che poi erano macchine, costruire una casa segreta sopra un albero. 
Avresti dovuto abbracciarmi prima che diventassi troppo grande, troppo in fretta. Rimanere senza tempo al mio fianco, raccontarmi di quei motorini rotti sulle strade del mare, come avresti fatto più in là. Allora sarei riuscita ad immaginarti giovane e migliore, più simile a me. 
Non avrei dovuto cercarti nelle foto della nonna, per tracciare i contorni del tuo sorriso, né avrei dovuto fare da testimone nelle case di sconosciuti. Ci saresti stato tu, calloso e distratto a tirar fuori le somme della mia incompetenza. 

La tua infanzia com’è stata, papà? Non me ne hai mai davvero parlato. Dicono che, in Ciociaria, i genitori sono ruvidi come sassi, che non sanno mai realmente avvicinarsi. Tu mi hai raccontato della tua giovinezza ed è come se non fossi stato mai bambino. L’ho scoperto dalla nonna, che in realtà sei esistito: c’è una foto di te, in un Carnevale di tanti anni fa, con indosso un costume da Zorro. Non somigli a nessuna delle tue sorelle, non hai ripreso la bellezza effeminata di tuo padre. 
Ti sei presentato a me già cresciuto, partorito da adulto e perennemente sporco di vernice. Mi hai insegnato ad usare le mani per difendermi, hai letto le mie storie e imposto testardamente le virgole, mi hai messo il peperoncino sopra le unghie, hai acceso lo stereo mentre preparavamo il pranzo. 
Mentirei se ti dicessi che alla fine siamo amici; sulla banchina del treno simuliamo uno scontro che è durato buona parte della nostra vita. Stiamo ridendo, e io non ho mai dimenticato. Tu al telefono mi ripeti che ciò che conta sono le “cose importanti”, poi mi chiedi scusa. Per cosa?, ti rispondo io. Per tutto quello che papà ha fatto. E quasi quasi mi commuovo: sono passati diciassette anni, sarà però che le scuse non hanno un’età. 

Per tanto tempo, papà, mi sono sentita un’orfana. Solamente un testimone. La corsa l’abbiamo fatta contro il tempo, per poi uscirne sconfitti e vincitori. 
Adesso tu sei un uomo, e io per te una donna. La tensione dei nostri sguardi si somiglia, ma tutto sommato ci è rimasto difficile abbracciarci.
Non importa, mi dico allora io, mi basta sapere che ci sei, che se siamo cresciuti l’abbiamo fatto per immaginare una strada.
Così tu vaghi nelle stanze, di nuovo bambino, colori le pareti dei miei muri. Io ti guardo invece da lontano, un posto ancora ignoto; una pagina che i nostri grandi hanno chiamato “futuro”.

Francesca G.

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