Bianco-Nero: 1. f4, e6; 2. g4??, Dh4#.
La sognavo la notte.
Una pianista che balla.
La regina, e passa oltre.
Quando mi incaricarono, non capii. Mi dissero: “lei è bravo. Molto, molto bravo”. Risposi con un “grazie” appena stentato, uno di quelli che il sorriso rimane in canna e gli occhi, rapidi, lo affrettano; lo affrettano e quello risponde alla chiama, sfuggendo dalle sue responsabilità, dalla stanca convenzione che gli ordina, per non risultare impudente, di celare la sua emotività, evidenziando invece il proprio sentirsi onorato, dopo un’investitura così inaspettata.
Elogiarono pubblicamente la mia visione, commentando la mia genialità — Loro usarono proprio quella parola — con magnifici complimenti. E non quei complimenti che arrivano, famelici, e colpiscono dritto, quei complimenti piatti e in fondo poco descrittivi ai quali si era abituati; no, i Loro complimenti eran visioni, visioni goethiane che strepitano in un mare d’inverno, e che conducono a metamorfosi l’anima ricevente — elevandola, rinominandola, ridefinendola.
Nominarono quella mossa, il pedone in g4, e ricordarono quell’ultima, umiliante, sconfitta. La partita più breve della storia degli scacchi: pedone bianco in f4, pedone nero in e6, pedone bianco in g4, e Donna nera, ovviamente e tristemente, in h4: scacco matto.
Tutto era cominciato lì. Fino a quella partita non ne avevo persa una sola delle 167 precedenti. Avevo 33 anni. Nessuno, mai, aveva messo in fila numeri del genere. Eppure, quella volta, incredibilmente, sbagliai. Il più elementare degli errori. Il punto di non ritorno. In quel momento, il cervello mi aveva abbandonato. Avevo studiato ogni schema, ogni partita. Per esempio Leonhardt-Maroczy, a Karlsbad, nel 1907. O Hoffman-Petrov, Varsavia, 1844. La memorabile patta tra Boleslavski e Tolus, a Mosca, nel 1957. E, ovviamente, l’infinita Lasker-Nimzowitsch di Zurigo ’34, in 65 mosse. E, ciononostante, avevo perso. E in quel modo. Scoprendo il fianco alla regina nera, impedendo al mio re bianco — sì, avevo anche la prima mossa — di compiere un qualsiasi altro percorso diverso dalla sua caduta.
Guardai la scacchiera e, conscio del fatto che l’usanza fosse ormai decaduta, volli omaggiare il mio incredulo avversario facendo planare il mio re sulla scacchiera. Così, avvicinai il centro della croce posta alla sua sommità e, colpendolo con il centro dell’unghia della mano destra, lo lasciai chinare, per la prima volta morente. Trattenni le lacrime di riprovazione, alzai appena gli occhi guardando l’avversario, e gli strinsi la mano. Quello, quasi dispiaciuto, provò ad accennare un sorriso, ma non gli riuscì bene. Assunse, così, una di quelle espressioni per cui il sorriso rimane in canna e gli occhi, rapidi, lo affrettano; lo affrettano e quello risponde alla chiama, sfuggendo dalle sue responsabilità, dalla stanca convenzione che gli ordina, per non risultare impudente, di celare la sua emotività, evidenziando invece il proprio sentirsi onorato — ché a battermi non c’era riuscito nessuno, ma in questo modo mai alcuno avrebbe pensato che potesse essere possibile.
Su quella mattina del rigido inverno russo ’77 si interrogarono in molti. Come potesse essere accaduto che un cervello così fine, così rivoluzionario nell’arte del giuoco, di colpo, si fosse schiantato prim’ancora di avviare la battaglia. Come se vi fosse stato un errore di sistema. Un’interruzione momentanea.
Io stesso mi domandai cosa fosse accaduto. Quella notte, come sempre, avevo avuto una notte senza sogni. All’alba, come ogni mattina, avevo scostato leggermente la tenda della mia camera d’albergo, per lasciare anche all’occhio quel godimento straziante di un giorno che inizia ancora, nonostante tutto. Raggiunto dalla bellezza di quel mondo sofferente, perduto nella coltre dei miei pensieri neri, studiai quell’oceanico silenzio che si era posato delicatamente là fuori, dopo che qualche timido uccellino aveva fatto professione d’innocenza, manifestando il proprio esserci.
Vestitomi con l’olimpica calma che da sempre ha inquietato ogni mio contendente, mi sono lasciato andare a un sorriso netto, un sorriso chiaramente distinto dal soggetto che vestiva — non uno di quei sorrisi ambigui, timidi, in cui persona ed espressione divengono un unico soggetto, grammaticalmente confuso e umanamente incerto, dove il sorriso rimane in canna e gli occhi, rapidi, lo affrettano; lo affrettano e quello risponde alla chiama, sfuggendo dalle sue responsabilità, dalla stanca convenzione che gli ordina, per non risultare impudente, di celare la sua emotività. Subito dopo, raggiunsi la macchina. Ci vollero pochi minuti e una ventina di passi. Eseguiti questi, avevo stretto la mano all’avversario guardandolo fisso negli occhi. Quello, chiaramente intimorito, dopo una deglutizione non rumorosa, s’era seduto. Solo dopo, come sempre, l’avevo fatto anche io. Il giudice toccò l’orologio, e mossi. Una classica apertura Bird. Lui aveva risposto come se avessi mosso il pedone di re, e aveva usato la difesa francese: pedone di re avanti di una casa. A quel punto, successe qualcosa di implausibile.
Chiusi gli occhi senza averlo deciso prima e vidi il mio sogno. L’unico. L’unica immagine che, nitida, mi aveva vinto. L’unico ritratto di quella mia ossessione notturna che, da sempre, mi impediva di sognare.
La sognavo la notte.
Una pianista che balla.
La regina, e passa oltre.
Riaperti gli occhi, i polpastrelli di pollice, indice e medio mossero di due case il pedone posto davanti al mio cavallo. Un attimo dopo mi accorsi di cosa quella mossa significasse, ma fu troppo tardi. L’avversario strabuzzò gli occhi e, fissando la scacchiera, non poté far altro che chiudere con il matto. La donna nera, un istante dopo, era al fianco del pedone bianco appena mosso. Game, set, match. La sconfitta si materializza. Il dolore mi raggiunge. La sensazione del fallimento, del tutto inedita, mi travolge.
Ecco dunque perché, quando Loro nominarono quella mossa, il pedone in g4, mi stupii, e non potei far a meno a me stesso di rievocare, nello spazio d’un secondo, quel dolore. Feci presente che quella, la mia ultima partita, descriveva piuttosto la mia imperfezione che la mia genialità, ma loro insistettero. Dissero che quell’errore, quel bruciante e inatteso fallimento, aveva dischiuso al mondo intero l’umanità del mio talento. Senza quella sconfitta, sostenevano, nessuno si sarebbe mai reso conto di come, in fondo, anche io fossi un uomo. Nessuno, se avessi vinto quella partita — quella partita che, prima di iniziare, avevo già annunciato essere l’ultima —, mi avrebbe potuto a prendere a modello.
La sconfitta edifica, ribadirono.
Fu così che, quando mi incaricarono di comporre tre riflessioni che ben descrivessero la mia ossessione scacchistica, chiedendomi però di farlo non rinunciando, con le parole, all’eleganza di quel giuoco, mi chiesi come mai proprio a me avessero pensato. Certo, il mio 167-1, coronato dalle venti vittorie di fila contro avversari di livello mondiale, non sarebbe mai stato raggiunto. Il mio punteggio, 2889, probabilmente, non verrà mai superato. I miei 15 anni consecutivi di titolo mondiale molto difficilmente potranno essere superati. Ma scrivere no, signori. Scrivere è tutt’altro. Un’arte diversa — affascinante, certo, ma troppo diversa — dalla mia.
A quest’opposizione, alla quale evidentemente si erano ben preparati, mi risposero che quanto sostenevo era indubbiamente vero, ma che, per parlare di quello, nessuno scrittore più bravo e competente di me avrebbe potuto raccogliere in qualche espressione metaforica il dolore di quella mossa, l’euforia di quei record, e tutto quel che avevo vissuto.
Non concordavo, ma non mossi opposizione. Dissi allora che avrei parlato di cervello, cuore e corpo, e di come, senza il controllo di tutti e tre, mai avrei potuto dominare me stesso e gli altri.
Loro dissero che non c’era nessun problema, e che avevo libertà totale.
A quel punto, accettai definitivamente.
Passò un istante. Uno solo. Ripensai a quella sequenza. 1. f4, e6; 2. g4??, Dh4#. Pensai che per il cervello, in fondo, quella sarebbe bastata.
Convintomi di ciò, immaginai il mio cuore trascritto — o trafitto, il che è lo stesso.
E, allora, capii il perché di quel sogno. Compresi perché senza cuore non c’è vita. Vidi, chiaramente, perché senza il corpo c’è solo la morte.
E, d’un tratto, afferrai con salda certezza come avrei dovuto parlare di quell’organo, grande come un pugno e potente come un dio.
E, ovviamente, non potei che iniziare così:
La sognavo la notte.
Una pianista che balla.
La regina, e passa oltre.
Federico
Come sempre la tua prosa è bella, bella della scorrevolezza che ti fa leggere un pezzo -anche complesso- tutto di un fiato. Non capisco tutti i passaggi logici: ma ci sta.
Come al solito non ci sono solo i dovuti complimenti, ma anche il mio dissenso su un passaggio.
“Compresi perché senza cuore non c’è vita. Vidi, chiaramente, perché senza il corpo c’è solo la morte”
Io sono convinto da sempre, da quando ero bambino, che l’uomo non avrebbe senso se dopo la morte non ci fosse nulla. Sono persuaso alla Pascal, che vada almeno la pena scommetterci
Lux
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Assolutamente anche io, per carità.
Temo di essermi espresso imprecisamente — mi riferivo solo a quanto succede prima della morte, ma in effetti gli assoluti che ho usato erano più che equivocabili.
Grazie come sempre,
Federico
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