Dal Giappone con amore

Quando vedrò finalmente il Giappone, per prima cosa andrò a cercare il piccolo borgo in cui nacque Nichiren Daishonin, monaco fondatore della pratica buddista che mi accompagna fin dall’inizio della mia vita. In quel luogo, cercherò di immaginarmelo raccogliere alghe per aiutare i suoi genitori al lavoro, facendomi permeare dall’odore di salsedine per lui così familiare; di vederlo poi abbandonare la sua casa d’infanzia per rifugiarsi nel vicino monastero di Seicho-ji, dove per sedici anni studiò a fondo tutti gli antichi sutra per diventare “la persona più saggia del Giappone”. 
Mi immedesimerò in quello che doveva essere il suo stato d’animo quando per la prima volta pronunciò Nam-myoho-renge-kyo, il titolo del sutra che lui considerò l’essenza di tutti gli insegnamenti buddisti, in un giorno primaverile del 1253. Lo vedrò continuare a recitare il mantra con gli occhi ben aperti davanti al mare, sentendo di essere arrivato alla via della felicità di tutti gli esseri viventi, qualcosa di apparentemente inarrivabile, comprendendo di essere l’intero universo racchiuso in un corpo umano. 
Cercherò poi di immaginarlo lasciare il suo luogo di nascita, nell’antica provincia di Awa, esiliato sull’isola di Sado, viaggiare da un posto all’altro in un’epoca incredibilmente lontana, in un Giappone antico e profondamente unico. 
Vedrò con i miei occhi lo scenario di quella vita, la terra della filosofia in cui mi sono ritrovata e che mi fa sentire così vicina a qualcosa che non ho mai conosciuto.

Come i romanzi di Amélie Nothomb, che con il suo Né di Eva né di Adamo mi ha aperto un’altra finestra su questo mondo lontano, lasciandomi immergere nella testa di una giovane donna belga alle prese con il ritorno nel Paese della sua infanzia, nei confronti del quale aveva sempre provato una profonda malinconia e un estatico piacere. 
Girerò per Tokyo alla ricerca di un caffè a Omote-Sando come quello in cui è ambientata la prima scena del libro, quando Amélie è in attesa del ragazzo giapponese con cui inizierà una relazione dolce e bizzarra, riscoprendo di pari passo la sua terra amata. Vorrei scrivere del Giappone in quello stesso caffè come probabilmente fece la stessa autrice nel suo viaggio.
Proverò a scalare il Monte Fuji in inverno per provare l’ebbrezza della protagonista nel sentirsi come Zarathustra, continuando a salire fino alla cima – completamente sola – fino a perdersi e sospettare di poter incontrare Yamamba, la più malvagia delle streghe giapponesi che cattura le sue prede in alta montagna. Non so dove potrei trovare tanto fegato, per di più sarei propensa a ossessionarmi anche io sulla strega delle foreste, ma l’idea di ripercorrere i luoghi di avventura di una delle mie scrittrici preferite nel Paese per me più affascinante d’Oriente mi fa sentire temeraria.

Vorrei toccare con mano anche ciò che mi ha raccontato il mio ragazzo, per metà giapponese, sulla ricerca orientale della qualità in ogni cosa: lo rivelano i ristorantini aperti in due metri quadrati di superficie che riescono a produrre una coda infinita per via di piatti deliziosi e unici, di gran lunga preferiti ai locali grandi e alle catene che in Italia invece sono solitamente i più assaltati. 
Il capitalismo sfrenato che interessa prima fra molte la società giapponese, in questo senso viene contrastato dal bisogno, insito nella popolazione, di rarità e bellezza. Lo stesso che si ritrova nella mania di confezionare con estrema cura qualsiasi articolo sia destinato alla vendita, e ancora più i doni che vengono fatti in ogni occasione. 
L’ego preminente in Occidente non concepisce alcune cose che potrebbero accadere solo qui: mia madre mi raccontò del suo viaggio a Tokyo negli anni ‘90 e di come appena atterrata con l’aereo una ragazza del tutto sconosciuta, vedendola disorientata, le chiese se avesse bisogno di aiuto e poi le tenne compagnia in aeroporto fino all’arrivo del suo ospite, due ore più tardi. Nel corso della sua permanenza, poi, si ritrovò invitata a varie cene per ognuna delle quali ricevette sempre un dono diverso dalla persona che la ospitava, perché in quel Paese si considera un onore poter ricevere e non, come in Italia, un favore da ricambiare. Credo, infatti, che la gentilezza insita nella cultura giapponese sia derivante da uno sviluppato senso di gratitudine.
Certamente non un sentimento innato, ma piuttosto ben coltivato e nutrito grazie a una certa cultura.

Una cultura che mi attrae moltissimo per il pensiero decisamente più votato alla pratica che all’astrazione, al senso del dovere che al senso di colpa, e di conseguenza a una maggiore attenzione verso l’istante presente. Sarebbe inutile paragonare la cultura italiana a quella giapponese per arrivare a stabilire un vincitore di civiltà, trovo invece molto più interessante notare gli aspetti caratterizzanti dell’una e dell’altra, per arrivare a conoscere meglio entrambe.
Approfondendo questa conoscenza posso capire anche perché sia così affascinante un Paese tanto distante dal mio; quanto la mia identità sia influenzata dalla mia stessa cultura, e quanto da una cultura che ha prodotto la filosofia buddista che ho scelto di praticare.
Per scrivere una lettera d’amore al Giappone che esaurisca tutti i sentimenti che da sempre mi ispira questo piccolo mondo, invece, mi servirà scrivere i prossimi due testi.

Valeria Delzotti

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