Beatrice Colombo (da ora “B”), 23 anni, rappresenta qui Rete della Conoscenza, un’organizzazione giovanile di Milano, che da anni ormai interagisce e collabora con LatoB, associazione di cui Serena Vitucci (da qui “S”), 26 anni, è membro attivo da molto tempo. Cominciamo dall’inizio: come vi siete avvicinate alle vostre associazioni e in che modo queste hanno iniziato a comunicare tra loro?
B: Il mio percorso di attivismo è iniziato tre anni fa — inizialmente all’interno dell’università, ma poco dopo mi sono interessata a un’associazione cittadina, Rete della Conoscenza, e così l’obiettivo è diventato aiutare anche al di fuori delle mura universitarie. Per quanto riguarda l’incontro fra Rete della Conoscenza e LatoB, durante la prima ondata della pandemia ci siamo trovati col circolo che non si poteva utilizzare e con una povertà molto aumentata. Così, pensando a come essere d’aiuto, abbiamo provato rispondere a questo bisogno e ci siamo attivati nel creare e distribuire pacchi alimentari per persone in difficoltà.
S: Ho fatto attivismo nel mondo universitario e, una volta finito, sono entrata nel circolo LatoB, che da sempre ha un rapporto stretto con le associazioni studentesche che si occupa di organizzare serate, mostre, teatri e altro, ma che, con l’arrivo della pandemia, è stato chiuso; tuttavia, una volta chiusi, ci siamo detti che il nostro lavoro era creare una socialità diversa, alternativa rispetto a ciò che Milano presenta. Chiedendoci come riportarla nonostante il virus, la risposta è stata innanzitutto un’implementazione di ciò che già offrivamo, come lo sportello al lavoro, e poi abbiamo creato uno spin-off, di nome Aiutarci, nato in un primo momento per aiutare i soggetti fragili e che poi è diventato lavoro sui pacchi.
Congiungiamo i due poli proseguendo sulla traccia appena accennata da Beatrice. Come è avvenuto l’incontro fra Rete della Conoscenza e LatoB e con quali modalità?
S: LatoB è un’associazione maggiorenne, che ha compiuto i 18 anni a novembre 2020. In particolare, l’associazione nasce con la fondazione dell’Unione degli Studenti a Milano; pian piano si è un po’ distaccato da persone che non facevano più direttamente attivismo, e nel 2014-15 abbiamo poi deciso di entrare nel Direttivo (relativo alle tre associazioni che coordinava: noi, Rete della Conoscenza e LINK — Studenti Indipendenti) e così abbiamo ripreso ad animare il circolo. Dopo il trasloco dell’associazione, abbiamo deciso di rilanciare ancora il circolo LatoB, e questa è stata una nostra scelta — per portare avanti non solo le nostre idee sulla mobilitazione o le vertenze sindacali, ma anche per ridare la centralità che merita al tema della socialità e per raggiungere persone certamente provenienti dall’Università ma non solo.
B: Aggiungo due cose su Rete della Conoscenza nello specifico. Attualmente è formata da tre altre organizzazioni che sono l’Unione degli Studenti, LINK (Studenti Indipendenti nelle tre università pubbliche) e il Coordinamenti Studenti AFAM Calliope, relativo invece agli istituti d’arte. Rete della Conoscenza nasce nel 2012 con l’idea di mettere insieme studenti delle superiori, dell’università, e degli AFAM (Alta Formazione Artistica Musicale e Coreutica, N.d.R.), con l’obiettivo ovviamente di incidere non solo sugli spazi universitari ma anche nella città; uno degli obiettivi è stato anche di coordinarci nell’azione. Avendo bisogno di un luogo fisico, ma anche politico, in cui farlo, è stato appunto LatoB, il quale poi è cresciuto, diventato autonomo, e sebbene entrambe le associazioni siano cresciute parecchio, tuttora continuano a coordinarsi e ad andare avanti mano per la mano.
Le vostre risposte indicano chiaramente una matrice comune, l’università. Secondo voi, perché proprio l’università? Avrebbe potuto essere un altro il luogo da cui queste due associazioni sono nate oppure è proprio la strutturazione dell’università (esami, lezioni, studio e aiuto comune, eccetera) ad averlo favorito? Al di là del trattamento ricevuto durante la pandemia su cui non mi trattengo, credo infatti che si sottovaluti molto quello che potrebbe essere l’aiuto fornito subito dalle università al Paese. Voi cosa ne pensate di questo?
S: Io son scesa in piazza per la prima volta contro la Legge Gelmini, però è l’università che mi ha permesso di fare un passo avanti di militanza attiva. Certo, non è con l’università che ho iniziato a fare militanza, ma è grazie all’università che ho assunto maggiore consapevolezza nelle esperienze di mobilitazione, imparando anche a prendermi responsabilità e conoscendo il mondo delle proteste molto più nei dettagli. All’università, oggi, c’è un tipo di mobilitazione molto diverso: bisogna partire dalle piccole vertenzialità sindacali dello studente che ha il singolo problema, per fargli capire dopo che l’università sia iper sottovalutata, schiacciata da difficoltà come il basso finanziamento, le diseguaglianze tra università grandi e piccole, materie umanistiche e scientifiche, numeri chiusi oppure no, eccetera. Oggi l’università è diventato un esamificio: si va, si sostengono i propri esami, e si torna a casa; è difficile cercare di capire cosa c’è dietro e cosa c’è sotto, e grazie a quest’esperienza mi sono accorta che c’è invece un discorso ampio, complesso, circa il sistema nella sua interezza — un discorso la cui profondità è da difendere e da insegnare a un tempo.
B: Io vengo dall’Università Bicocca, che diversamente dalla tua — indicando Serena, N.d.A. — Statale è costruita con pochissimi spazi aggregativi; inoltre, essendo in periferia, gli studenti vivono anche molto meno la città. È quindi importante, anzi direi centrale, far vertere il tessuto universitario in quello cittadino, cosicché questi due nuclei, letteralmente cancellati dalla pandemia, possano tornare a incontrarsi e dibattere, trovando così la giusta spinta per cambiare.
Per questa domanda devo necessariamente fare una premessa. L’anno scorso, intervistando il vice-segretario nazionale dei Verdi, Elena Grandi, avevamo convenuto su quanto i giovani frequentanti gli scioperi globali per il clima, purtroppo e in gran parte, fossero inconsapevoli circa i temi per i quali lo sciopero esisteva. Cartelli (ricordati in quel dialogo) quantomeno ambigui e fuorvianti campeggiavano nelle piazze, dimostrando — perlomeno secondo chi ora vi pone questa domanda — la grande immaturità degli scioperanti. Com’è possibile, vi chiedo allora, riuscire a mantenere la nobiltà che caratterizza l’atto dello sciopero nonostante l’ignoranza e la superficialità dilaganti?
S: Parto da FridaysForFuture perché ho organizzato tutti gli scioperi più recenti. Devo dire che, avendole organizzate, non mi ritrovo tanto con la tua descrizione; penso, piuttosto, che ci sia diversità d’animo. Pensando per esempio alla mia esperienza, non è che conoscessi pedissequamente la Legge Gelmini quando, liceale, scendevo in piazza protestando contro: c’era stato il classico ragazzo più grande che ciascuno di noi ha e che mi aveva spiegato per quali motivi, a mio avviso condivisibili, fosse giusto protestare, e così avevo fatto. Insomma, io credo che i giovani che protestano sentano il problema, forse anche più di quanto non lo conoscano effettivamente. Relativamente ai cartelli, penso che rappresentino invece il degrado e la disillusione da cui siamo circondati. Credo che dietro quei cartelli ci sia la consapevolezza che, soprattutto sull’ambientalismo, questi ragazzi si trovino un muro davanti — laddove noi la studiamo, loro l’ecoansia se la vivono ogni giorno.
Per quanto attiene il giorno d’oggi, invece, senz’altro c’è molta superficialità, come anche confermato ogni giorno di più dai social, ma anche su quel tema penso che sarebbe quantomai necessario un approfondimento: se fossero usati in un certo modo potrebbero essere davvero utili. Concludo dicendo che noi, dieci-venti anni fa, ancora vedevamo un obiettivo diretto (un esempio chiaro e su cui si potrebbe parlare molto: si odiava una banca e si spaccava una vetrina per dimostrarlo — anche se con questo non voglio certo giustificare gesti violenti, sia chiaro, è solo per rendere l’idea), mentre adesso il singolo ragazzino disilluso trova più confortante avere dei movimenti nei quali basta il singolo cartello che non fare dei discorsi di sistema approfonditi. E, temo, quando Greta stava effettivamente cambiando le cose anche su questo, facendo capire a chi la seguiva l’importanza del dialogo con i potenti del mondo e l’importanza dello studio su questi temi, è arrivato questo dannato virus. Capire come ripartire, e come ripartire ancora meglio, tanto per la battaglia ambientale quanto per le mobilitazioni in generale, è davvero un tema enorme, che caratterizzerà profondamente il futuro nostro come attivisti e — ben più importante — come cittadini del mondo.
Cara Serena, mi servi la prossima domanda per Beatrice su un piatto d’argento… In che modo è possibile provare a sfruttare l’occasione di questo grande cambiamento che ci è stato imposto e che ha così accentrato la nostra attenzione sui problemi della società, per risolverli?
B: Io penso che prima di tutto bisogna trovare il modo di trovare una narrazione diversa di quello che sta succedendo. Per come ci viene descritto, per esempio, quello di Draghi è il governo della competenza, del merito, e di tutto ciò che è auspicabile per salvare l’Italia, perché usa determinate parole — “giovani”, “futuro”, “cambiamento”, “transizione ecologica”, eccetera. Per come si sta definendo il Recovery, però, quel che ci si prospetta è un aumento della disuguaglianza, con fondi destinati a imprenditorialità individuali, con un modello economico di intraprendenza che però dipende, in modo ineliminabile, dalla disposizione economica iniziale. Non si va, insomma, nella direzione di ridurre le disuguaglianze, ma di lasciarle lì come sono, e le si usa come specchietti per le allodole.
Quel che è stato fatto, a mio modo di vedere, è creare luoghi di partecipazione giovanile, con un movimento dal basso, dove la gente si esprime, discute, dibatte, e quant’altro, con luoghi di confronto fra cittadini e partecipi, e credo sia fondamentale continuare a incentivare questo tipo di iniziative sperando al più presto che possano portare i loro frutti. Ti ho risposto?
Sì, direi di sì. Aggiungiamo magari un brevissimo cenno a una questione di grande importanza sul tema. È verosimile pensare, infatti, che le manifestazioni con migliaia di persone in piazza saranno, per anni, del tutto impossibili. Come, dunque, coniugare la necessaria distanza fisica all’altrettanto indispensabile prossimità di ideali?
B: Serve una presa di coscienza. Serve far capire la complessità degli argomenti; la forza di Meloni e della destra più estrema, per esempio, sta nella semplicità con cui parlano, mentre la sinistra porta dei linguaggi che non sono più accessibili: va rovesciato il modo in cui ci si approccia al popolo, ai singoli individui, alle classi subalterne.
S: Aggiungo solo una cosa. Credo che le due ricette fondamentali per riportare la sinistra politica ai singoli individui siano la semplificazione del linguaggio e l’andare fisicamente nei luoghi dove le persone vivono, mangiano, lavorano. È solo riavvicinandosi al singolo cittadino che, perlomeno a mio parere, sia in termini di consenso sia sotto l’aspetto ideale, si può crescere ancora moltissimo.
Mi viene ancora da puntellarvi su questo. Dite, più che giustamente, che la destra fa della semplicità la propria forza. Il dubbio che a me viene, però, è il seguente: alla destra conviene mantenere un linguaggio semplice, perché è sulla semplicità che ha sempre puntato per raccontare il mondo. La sinistra — o quel che ne resta, mi viene da dire con un certo rammarico —, invece, da sempre difende la complessità delle questioni che affronta. Come coniugare questa complessità (che è da difendere a ogni costo) e l’esigenza di uno snellimento complessivo della proposta offerta dalla sinistra? O, se volessimo depoliticizzare la domanda, come porre questioni di sistema nell’era della semplificazione?
S: È la classica domanda da un milione di dollari. Indubbiamente questo è un qualcosa su cui tutti ci interroghiamo. In ogni caso, però, le questioni che noi ci poniamo sono tutte più globali di quanto non fosse prima. Il fatto che Facebook possa bannare tanto Trump quanto la ragazza che mette una foto un po’ disinibita, per esempio, dovrebbe farci capire fino a che punto chiunque sia soggiogato a questo sistema. Un sistema, certo, che non segue più le direttive del passato, anche e soprattutto sul versante della comunicazione. Traducendo: se non mi avvicino allo sciopero leggendo L’uomo a una dimensione come si faceva una volta, se spiego il comunismo non leggendo Marx ma raccontandolo tramite metafore, per quanto l’evoluzione possa non piacere, c’è solo da assumerla come un fatto compiuto. Cercare nuove forme di comunicazione, forme che contemplino la semplificazione senza implicare un riduzionismo di fondo, è forse la più grande di tutte le sfide.
B: La sinistra in generale deve secondo me ripartire dai cittadini. Il motivo per cui la gente dovrebbe fare partecipazione politica è perché ne ha necessità, ed è in questo senso che dico che il disagio va organizzato. C’è bisogno di ripartire da necessità, bisogni, e dal momento che questi esistono, e purtroppo esisteranno sempre più, si può solo scegliere tra la partecipazione e il più totale isolamento. Ed è ovvio, in conclusione, che la prima possa puntare a cambiare il sistema, mentre il secondo lo conservi.
Vorrei concludere con un tema che incrocia, a metà strada fra la specificità di questo dialogo e la generalità del blog che lo ospita, molti dei temi trattati oggi. Partiamo anzitutto dal presupposto che non c’è battaglia se non culturale. Due domande, dunque: in che modo la cultura può essere il centro — delle battaglie, degli scioperi, delle proteste — dei giovani e, insieme a questo, fino a dove si può arrivare? Prima, infatti, Serena, parlavi della protesta che sfocia nella violenza. Fino a dove si può battagliare e da quando, invece, si scade nel torto?
S: Avendo un circolo culturale, è chiaro che io parta proprio da questo; credo comunque che ci sia una sorta di ritorno di fiamma verso la cultura — non nel senso elitista del termine, ma nel senso di capire perché qualcosa esista, nel senso di Primo Levi, di farsi tenere in vita grazie al bagaglio culturale che si ha. E in questo è vero che “non di solo pane vivrà l’uomo”: l’essere umano è anche altro, è anche cultura, appunto — e il modo di renderla cruciale è associarla tantissimo non solo ai bisogni. Per me la strada deve tenere cultura, politica e socialità.
B: Io — e Rete della Conoscenza con me — trovo sempre centrale, per fare un ragionamento di sistema, la scuola, l’università, e i luoghi della cultura, per andare verso un cambiamento che si costituisca come ripensamento del sistema; per ricostruire un sistema, non puoi che partire da lì, da un’educazione, una formazione, una cultura che sia il più libera possibile, che sia libera da ingerenze di qualsivoglia tipo, e che usi la cultura come sentinella per portare l’attenzione sulle falle del sistema e ripensarlo daccapo.
Sul fino a dove ti dico che, di nuovo, è tema molto complesso: a oggi, il sistema neoliberale è egemone, e tutte le dimensioni principali dell’essere umano sono regolate da logiche di profitto e benessere, e per invertire la tendenza bisogna anzitutto creare consenso su un tema diverso. Nel momento in cui questo consenso costruisce delle proposte — ipotizziamo: un tavolo con il governo — allora sì che si può cambiare le cose. È ovvio che se poi le proposte vengono rifiutate dall’alto dei palazzi del potere, le opzioni di partecipazione si riducano drasticamente. Per concludere: la Resistenza non è stata non violenta, non è stata senza macchia; quando lo scontro arriva a quel punto, è chiaro che non sia abbastanza la lotta pacifica, ma è chiaro che serva un processo storico per andare oltre, e che la violenza gratuita non risolva nulla e rimanga comunque sempre deprecabile.
S: Aggiungo solo un’ultimissima battuta: finché la larga parte della popolazione guarderà più alla vetrina che ai temi per cui quella vetrina viene infranta, difficilmente quei problemi andranno verso la loro risoluzione.
Federico