Se solo mi sentissi ispirata, ti sposerei nel silenzio padrona del niente.
Ho letto che per amare bisogna avere il cuore nobile, così ho iniziato una preghiera scomoda; una di quelle che non appena hai finito ti lasciano a metà tra il buio e la luce. Adesso immagina una candela, i tuoi capelli, i miei silenzi. Me che voglio divorarti e muovo invece incerta.
Ho sempre pensato che l’inaffidabilità dei miei sforzi si sarebbe riversata in te, prima o poi. Che se avessi vacillato, per sbaglio, tu mi avresti sorretto. Che nel mio passato saremmo atterrate come navicelle, e io ti avrei guidato sino a lì e detto: “mi vedi?”
Non avresti mai spostato gli occhi dal mio viso; la cenere mi avrebbe ricordato quelle foto e quei pezzi di carta che il tempo ha spazzato via. Tutta questa vita che hai dimenticato è soltanto una crepa nell’economia delle spalle, nel circolo vizioso di anni di plastica.
Vorrei farti vedere cosa mi succede quando sono sola e grande. La differenza tra come mi pensi tu, immersa, e come mi sento io, annegata.
D’estate veniva fuori tutta Roma in una strada, e tu cambiavi casa: lasciavano proprio all’angolo con il tuo cancello un materasso che ricordava la mia pelle, i miei complessi. A luglio, dalla finestra sempre aperta, c’affacciavamo a testa in giù a fumare una sigaretta.
In Via del Moro guardavo le edere e i tuoi fiori blu, e pensavo: “come mi hai conosciuto?”
Su un foglio avevi scritto il nome dei tuoi poeti preferiti, e io m’ero spinta dall’altra parte di Roma, mentre stranieri t’adocchiavano per chiederti da dove provenivi. Forse, ho pensato in un distinto momento, sei nata dal mio senso di colpa. Se avessi messo insieme tutte le cose della mia adolescenza, i film, il primo amore mai vissuto, le ore trascorse davanti allo schermo, saresti venuta fuori tu, con le unghie troppo corte e i capelli rossi profumati.
Saremmo stati presto abbandonati, e io avrei cambiato Caffè, servito i tavoli con la sensazione che l’estate fosse stata solo una parentesi nella mia vita, ma che in qualche angolo del mio cammino i treni di San Lorenzo fischiassero ancora oltre una finestra semiaperta.
Sembrava mi chiedessi di non scrivere mai di te, che avevi paura di farti del male e navigavi sopra statue levigate nel sapone. Cosa vuoi che ti dica, adesso? L’estate è finita da un pezzo. Siamo tornati normali, senza strappi sui jeans. Ricominceremo presto a starnutire, in prossimità della primavera. Tu prenderai un aereo e leggerai un libro di racconti femministi, io stabilirò contatti ultraterreni per tornare indietro, al mio tempo.
Volevo solo dirti che non c’è più respiro, e qui ci si sente malati davvero. La Roma sana non l’hai mai conosciuta, tu, e ormai è un miraggio. In strada la gente continua a gridare, e sia io che gli altri ci affacciamo oltre i corrimano arrugginiti per inneggiare al disastro.
Forse presto me ne andrò, non venire a cercarmi. Se non partissi, farebbe poca differenza rimanere. Piuttosto, vorrei tornare. Lasciare la finestra aperta e scalare una montagna; fingere che sia trascorso un attimo e dire: “non me n’ero accorta, sono sparita soltanto un secondo”.
Trovare tutto ancora lì, imbalsamato ed issato sui muri, mentre sfida le leggi di gravità.
E tu, come stai? Hai ancora lo stesso sorriso che si vede nei film?
Spero proprio di sì. Un tempo mi avresti sorretto, ti avrei versato un bicchiere di vino. Avremmo parlato in una soffitta senza esagerare, tu ancora reduce, con in mano un ukulele, io statuaria nel presente.
In questo istante penso che dimenticare sia pericoloso, che ti dovrei abbracciare. Non dovresti mai cambiare casa senza avere un punto fisso, altrimenti, chi ti troverà?
Ti auguro una buona permanenza, ovunque tu sia.
Da Roma,
con amore.
Francesca