Michele Manzolini, regista originario di Sondalo, ha recentemente raggiunto il suo massimo riconoscimento da quando ha iniziato il suo percorso professionale — di recente, infatti, è stato premiato agli EFA per il suo Il Varco, nella sezione montaggio. Ma com’è nata la passione che poi ha portato a questo premio?
Io sono un regista e lavoro a cavallo tra il cinema documentario e quello d’archivio. Come sono arrivato a esserlo? Ho studiato comunicazione a Bologna e ho cominciato a lavorare, iniziando dai documentari e ai reportage negli anni zero del 2000 — il primo film, Merica, diretto con Federico Ferrone (co-direttore anche de Il treno va a Mosca e Il varco) e Francesco Ragazzi, è del 2007, e nasce un pochino dalla mia esperienza, dal momento che nasce dallo scambio universitario di un anno che avevo compiuto in Brasile all’ultimo anno d’università. Di lì ho iniziato a lavorare al documentario, che trattava dell’emigrazione italiana in Brasile mettendola in parallelo con l’immigrazione in Italia. Con lo stesso gruppo abbiamo realizzato alcuni reportage per la televisione e pian piano ci siamo avvicinati al documentario di creazione realizzando Il treno va a Mosca (2013) e Il varco (2019), a metà strada tra la finzione e il documentario e il cinema d’archivio. Contemporaneamente ho collaborato alla realizzazione di due documentario Luca Magi, un regista visivo che io apprezzo particolarmente, collaborando ad Anita (2012) e Storie del dormiveglia (2018).
Poi se ti va andiamo su questioni anche che esulano dai tuoi lavori, ma ora mi piacerebbe che creassi un percorso che possa partire da Il treno va a Mosca per condurci sino alla premiazione agli EFA de Il varco. Cosa c’è stato, qual è stato il processo creativo, quali sono le tematiche trattate, e tutto quel che ritieni opportuno dirci.
Il treno va a Mosca nasce come un’idea su un periodo storico preciso, che erano gli anni ’50, in un luogo specifico, quale l’Emilia Romagna. Le ricerche si sono pian piano concentrate su materiali amatoriali, quindi non sono le solite rappresentazioni mediate da propaganda o comunque di uno sguardo che ne orienti la visione: sono materiali di prima mano su un paesino dell’Emilia Romagna, Alfonsine, e il film tratta la vita di questo paese e la storia di un gruppo di amici e della loro vita all’ombra di un loro sogno, quello di vedere l’Unione Sovietica, Paese simbolo della loro utopia, con un viaggio di oltre mese realizzato nel 1957 per partecipare al festival della Gioventù socialista. Abbiamo voluto lavorare a livello immersivo sul materiale; abbiamo voluto lavorare su immagini così forti, nella convinzione che potessero mostrare molto più di un utilizzo didascalico o di una ricostruzione storica — si può dire che abbiamo voluto trascinare su quel treno per Mosca lo spettatore —, e abbiamo mantenuto, come voce narrante, quella del barbiere Sauro Ravaglia, l’unico superstite dei quattro. Il film-documentario, a causa della sua atipicità, è stato definito “un ufo” quando è uscito nel 2013, e quando è stato presentato dal Festival di Torino, e dopo ha avuto una buona diffusione nelle sale (è stato distribuito da Luce). Abbiamo voluto in seguito continuare a lavorare sul found-footage, cogliendo la richiesta di riscrivere un nuovo film a partire dagli archivi dell’Istituto Luce e di Home Movies — archivio nazionale del cinema di famiglia. Ancor prima di definire una storia, abbiamo guardato per due anni molti materiali, proprio perché volevamo che fosse la forza dell’immagine a trascinare la storia, non il contrario; ci siamo imbattuti in una serie di fondi di soldati italiani partiti per il fronte russo nella Seconda Guerra Mondiale per l’Operazione Barbarossa, i quali fortunatamente disponevano di una cinepresa privata, filmando così film preziosissimi, che abbiamo deciso di lavorare in maniera libera — ma in questo caso era necessario, ché entrambi i soldati erano morti — cercando di decodificare i materiali stessi, facendo un vero e proprio lavoro di mappatura mettendosi negli occhi di chi li aveva filmati. Per mappare temporalmente e geograficamente i materiali abbiamo usato un corpus di scritti, di diari e memoriali di soldati al fronte, che sono stati anche alla base della biografia del nostro protagonista, mai esistito ma plausibile, per offrire un punto di vista soggettivo sulla guerra. Abbiamo voluto mantenere elementi biografici, con tutti flashback e vari ricordi reali anche se in un contesto di scrittura totalmente di finzione, ottenendo il risultato di un film che è quasi uno sguardo su un uomo che vive un viaggio verso il fronte con sentimenti contrastanti. Il varco, per tutte queste caratteristiche, è difficilmente inseribile in un genere — e infatti è stato inserito nella sezione Sconfini del Cinema di Venezia e poi ha avuto un premio per il miglior montaggio, conferito alla montatrice Maria Fantastica Valmori, agli European Film Awards, che è anche un grande riconoscimento al film.
Io e te ci siamo conosciuti durante degli incontri online tenuti da Mattia Agostinali, che qui ormai da gennaio pubblica la sua Lista di 100 film. In particolare, giusto ieri (l’intervista è stata registrata il 29 gennaio, N.d.A.) stavi raccontando agli ascoltatori come me cosa fosse il found-footage. Avresti voglia di ripeterlo per i nostri lettori, unendo alla tua risposta qualche riflessione su questi incontri come modo per tenere il pubblico vicino al mondo cinematografico che tanti travagli sta patendo?
Per il mondo cinematografico è un anno azzerato, quasi totalmente cancellato, anche dal punto di vista festivaliero. Il momento è difficilissimo; devo dire che gli incontri come quelli che sono stati fatti anche con Mattia, più che per uno sguardo per un nuovo tipo di cinema, è utile anche solo per il fatto di essere insieme — poi chiaramente i film si guardano nel proprio privato, ma è bello poter utilizzare quest’anno perso per cementificare questa relazione. In quest’ambito, una lezione intera come quella sul cinema di found-footage è molto specialistica — anche se è un tipo di processo di creazione che esiste dagli albori del cinema e che è molto stato utilizzato da grandi maestri nel corso dei decenni. Found-footage può essere qualsiasi cosa: archivio di cinegiornali, film amatoriali, film d’archivio, film commerciali, di finzione, di pubblicità: tutto ciò che è filmato o visivo e che viene ricontestualizzato in un’altra opera; negli ultimi anni, l’approccio è più semplice per almeno due motivi come la digitalizzazione e la messa online dei materiali con i quali l’accesso al materiale diventa più ampio e democratico. Anche in Italia è un movimento che sta crescendo, e c’è anche un premio — il premio Zavattini — che permette, con una giuria, di fare dei cortometraggi con cinema d’archivio, e i risultati sono ottimi, e spesso vengono premiati a Venezia e all’estero; comunque l’interesse sta crescendo, e si sta in qualche modo muovendo verso il cinema più mainstream — anche con film come Martin Eden o, perché no, come Il Varco. Naturalmente bisogna avere un approccio eticamente consapevole: bisogna in primis rispettare il materiale d’origine, e poi entrare nell’ottica del presente e capire come tale materiale potrebbe essere visti con gli occhi di oggi.
In tutti i casi, è una forma di linguaggio che dà enormi possibilità. La definizione migliore per questo cinema è il giudizio della regista da poco deceduta Cecilia Mangini, che vedendo Il treno va a Mosca l’aveva definito “cinema bastardo” perché è davvero un cinema senza padri e senza madri, ed è un cinema che riusa il cinema, frutto di più menti e di un cinema dalla memoria un po’ orfana.
In un’intervista fatta di recente a Stefano Sosio, era emerso un meccanismo riguardante l’editoria di cui vorrei chiederti l’eventuale sussistenza anche nel mondo della cinematografia: quel che lui diceva, riassumendo, è che in Italia, tanto nella prosa quanto nella poesia, non vi sia molta creatività, e che lo scrittore che sente il bisogno di distaccarsi dal mainstream, con originalità forti rispetto al mercato, viene rigettato, ignorato, perché non vende, e quindi nel suo discorso veniva a crearsi un’equivalenza per la quale gli autori più venduti sono i più omologati e quelli meno venduti sono i più originali e brillanti. Pensi che valga lo stesso nel mondo della cinematografia?
Per me è molto diverso. Credo che ci siano diversi mercati nel mondo del cinema; peraltro, viviamo in un momento di totale cambiamento, e non è chiarissimo cosa sarà il futuro, perché ovviamente l’avvento delle piattaforma cambia molto anche il paradigma di come vengano prodotti, e dunque diffusi, i film — è un cambiamento epocale quello a cui stiamo assistendo, che non riguarda solo la diffusione ma anche la produzione. Poi chiaro che se parliamo di Hollywood è un discorso, se parliamo del mercato europeo è un altro, e se parliamo dell’Italia è tutt’altro ancora — in ogni film io credo ci sia una propria credibilità a tutti i livelli, anche se è ovviamente difficile riuscire a creare qualcosa di completamente nuovo.
Non posso non sfruttare l’assist fornitomi dalla tua risposta per chiederti: fra 15, 20, 30 anni, i cinema saranno aperti? Dando per scontata una riapertura post-Covid, i cinema avranno un futuro assicurato o saranno sbranati dai Netflix della situazione?
Io spero vivamente che rimangano aperti, anche se devo dire che mi risulta difficile fare delle previsioni, soprattutto perché sembra chiaro che diventeranno sempre meno e sempre spazi dove il cinema si diffonderà con un tipo di distribuzione più vicina alla musealizzazione come avviene nell’arte contemporanea che non a una vera distribuzione popolare. Credo, ecco, che i cinema diverranno qualcosa di sempre più settoriale.
E sulle piattaforme che idee hai? Netflix ha distrutto il cinema o l’ha solo cambiato?
Netflix produce con un metodo di produzione talmente nuovo da sconvolgere tutto il resto; ci sono altre piattaforme che producono o altre che distribuiscono molto e producono meno fornendo spunti davvero interessanti — penso soprattutto a MUBI, dove si possono trovare film davvero diversi dal mainstream che conosciamo. Io credo che anche queste piattaforme così generaliste andranno sempre più a settorializzarsi, e in questo senso ho paura che un rinascimento del cinema in sala sarà molto difficile — anche perché la sala è in crisi da 40 anni, non da quando esiste Netflix!
Chiudo questo discorso con quello che, delle grandi piattaforme di distribuzione, è probabilmente la controparte: il cinema in sala, e quel cinema qualitativo, che non punta sui popcorn e sul wi-fi in sala ma sulla qualità della selezione e sulla lingua originale, che incassa meno rispetto alle grandi catene ma che, perlomeno a mio parere, fa davvero il bene del cinema. L’esempio migliore di questo credo sia il Cinema Beltrade di Milano, che ai nostri lettori non è nuovo dal momento che ho intervistato Monica Naldi, una delle due donne che lo gestisce. Cosa pensi di questo tipo di realtà?
Che piacere sentirti parlare del Beltrade! Due mesi dopo la loro apertura hanno proiettato Il treno va a Mosca, e in seguito anche Il varco. Credo che quello sia esattamente il cinema che rimarrà, e che riuscirà a trarre più giovamento dalla riapertura, anche grazie alla loro ottima multiprogrammazione basata anche su un cinema indipendente — e la speranza è che rimarranno uno-due Beltrade per città. Chiudo dicendo che per il tipo di cinema per cui lavoro io, quello sia il tipo di luogo principe. Io spero che quei cinema saranno quelli che riusciranno a riaprire con forza e spero con tutto il cuore che riescano a difendere le loro idee e la loro idea romantica di cinema.
Ci avviciniamo al termine dell’intervista. A questa domanda devo necessariamente premettere un mio episodio personale. Durante il corso di Storia contemporanea (che aveva un modulo dedicato al cinema come fonte) è stato più volte citato dal nostro professore quel momento di Tutti a casa in cui Sordi dice “gli americani si sono alleati con i tedeschi” per esemplificare la perdizione degli italiani dopo l’armistizio, e anche per dire quale fosse, perlomeno secondo l’avviso del nostro docente, l’elemento che distingueva il cinema da tutte le altre arti: riuscire a descrivere un’epoca in pochi secondi. Tu concordi? E, al di là di questo tratto specifico, quale credi sia (ammesso che tu ritenga che uno ci sia) la caratteristica più peculiare del cinema?
Di primo acchito ti direi che chiaramente è un’arte. Più che riuscire a riassumere dei momenti, credo sia l’arte che più di tutte riesce a lavorare con i nostri sensi e, oltre a questi, a lavorare con l’immaginazione e la fantasia, e in qualche modo riassume da una parte l’esperienza del teatro, le arti visive e le arti plastiche: è, ecco, la summa delle altre arti, e questa credo sia davvero la differenza con le altri — la giustapposizione delle immagini, il montaggio, un collegamento che può essere esplosivo. È davvero un tipo di arte completa, e per me, che amo moltissimo il cinema sperimentale ma anche quello delle origini, è un’arte che non è del tutto espressa, che avrebbe potuto prendere una via totalmente diversa rispetto a quella che poi c’è stata. Per me le possibilità di sperimentare con il linguaggio e la narrazione — un po’ come la letteratura, in questo — ha ancora bisogno di trovare delle alternative che ancora oggi non conosciamo.
Quello che diceva il tuo professore ha un senso perché ti riporta a un gusto, a un’emozione, a un ricordo, e in qualche modo riesce a ricrearti quel momento con grande precisione; credo però che raccontare un momento preciso sia una cosa comune a tutte le arti, e questa penso che sia la forma più completa per farlo.
Abbiamo appena parlato di cosa renda peculiare l’arte del cinema secondo Michele Manzolini. Ma, ed è così che concludiamo questo dialogo di cui ti ringrazio molto, per Michele Manzolini, cos’è il cinema?
Mamma mia che domandone… (ride, N.d.R.) Per quanto credo sia leggermente diverso rispondere da regista o da spettatore, in parte credo di averti già risposto: è, penso, un modo di espressione, un tipo di linguaggio, che ti permette di vivere e rivivere altre vite.
Federico