Fino a più o meno marzo scorso, una buona parte della popolazione adulta amava imputare ad internet e social network qualunque disagio dei giovani e ripetere spesso, come un proverbio, che “si devono staccare dal telefono”.
Un anno e una pandemia dopo, il mondo intero è stato risucchiato da internet e piegato sui propri computer. Quanti frequentano scuole o università hanno visto i propri orizzonti restringersi a Zoom o Microsoft Teams o Meet.
Dunque, le lamentele nei confronti della nostra generazione hanno dovuto cambiare direzione. E si sono concentrate sul fatto che sia così semplice studiare online e dunque chi è in difficoltà pecchi di debolezza o peggio, di pigrizia.
Per prima cosa, il problema di questa digitalizzazione è che, pur chiudendo ciascuno di noi in una sfera essenzialmente privata, ha delle forti ripercussioni politiche. Il semplice accesso a dispositivi funzionanti diventa una nuova forma di privilegio. Avere un wi-fi che non si interrompe, una stanza tutta per sé dove studiare o un computer personale a propria disposizione diventa cruciale per una soddisfacente vita scolastica o accademica. Tuttavia queste risorse non sono a disposizione di tutti. La scuola e l’università digitale, sono, non possono che essere, istituzioni classiste. In una democrazia funzionante, scuola e università dovrebbero essere forze di educazione e di emancipazione, in cui a ogni studente vengono date, almeno virtualmente, le stesse possibilità.
Tuttavia quest’anno, secondo una statistica realizzata da Save the children, “si possono stimare prudenzialmente circa 34mila studenti delle scuole secondary di secondo grado come potenziali nuovi dispersi” in seguito alla difficoltà della didattica a distanza. Nel frattempo, in Italia un noto politico ha pensato bene di prendere in giro una bambina che desiderava ritornare sui banchi. Come se l’istruzione in presenza fosse un supplizio a cui nessuno potesse voler ritornare.
In realtà spesso è lo schermo stesso a causare esaurimento. Insomma, studiare su Zoom è più faticoso di come lo si descrive.
In suo articolo su Liberaciòn, tradotto da Internazionale, il filosofo Paul Preciado ricorda che l’attuale lockdown rappresenta un unicum storico. Argomenta che “noi non siamo confinati. Siamo stati digitalizzati con la forza. Non siamo stati rinchiusi nei nostri appartamenti, bensì nel mondo digitale.” La differenza? In un confinamento reale ci sono silenzio e isolamento, nel nostro ci sono mail costanti a cui rimanere connessi, link su Classroom o su Zoom con cui tenersi aggiornati. La necessità di star dietro ad un moto digitale incessante proprio nel momento in cui siamo fisicamente impossibilitati a muoverci. Non c’è da stupirsi, scrive ancora Preciado, che nessun giovane Newton abbia scoperto una nuova teoria fisica; anche ne avesse avuto il talento, avrebbe passato le giornate sulla sua casella di posta elettronica.
E le conseguenze di questa connessione perpetua sono pesanti.
Fisher scrive nel suo saggio La privatizzazione dello stress che “uno degli effetti della moderna tecnologia della comunicazione è che non esiste più un luogo esterno in cui una persona può recuperare.
Il cyberspazio rende obsoleto il concetto di “luogo di lavoro”.” In altre parole, la distinzione fisico-temporale tra lavoro/studio e riposo viene abolita.
Scuole, università e posti di lavoro si intrufolano ovunque. Possono persino chiederti una visione a 360° della tua camera per assicurarsi che tu non stia barando ad un esame. La perdita di uno spazio-tempo personale, specialmente quando quello spazio-tempo rappresenta il mini-universo in cui vivere, pesa, non può che pesare. Altro che isolamento, questa è un invasione, un furto di ritmi e di riti che un tempo ci appartenevano e adesso non più. Così viene esacerbato un già gravoso senso di perdita.
Tra l’altro, vale la pena dare ragione agli adulti su un punto, stare troppo al telefono può effettivamente fare male. Possiamo anche dare retta a chi, come Cal Newport, autore di Minimalismo digitale, sostiene che abbiano contribuito all’aumento di disturbi della salute mentale nelle nuove generazioni. Possiamo accettare il fatto che sì, social network e Internet, se approcciati senza cautela, si servono di meccanismi di dipendenza, nutrono ansia, depressione, senso di inadeguatezza e alienano progressivamente dal mondo esterno. Possiamo, certo, ma senza dimenticare le sfumature e i potenziali lati positivi. Si mettano pure sotto esame molti di questi meccanismi nocivi della tecnologia, ma il verdetto finale non può che essere ambiguo.
In fin dei conti, è l’uso personale a determinare le conseguenze, dunque cruciale è la possibilità di scegliere. Peccato che nessuno possa scegliere nelle circostanze presenti. Essere online è una costante necessità.
Considerato che Internet prolifera costruendo dipendenze, come stupirsi se studenti costretti su uno schermo tutta la giornata si dimentichino dell’esistenza di alternative?
La soluzione? Non ho una soluzione. Medici, ricercatori, sociologi, esperti di tecnologia e insegnanti stanno lavorando a dei nuovi modelli che permettano l’apertura di scuole e università in maggiore sicurezza o che attutiscano le presenti disuguaglianze dell’apprendimento online.
La mia modesta proposta, nel frattempo, è riconoscere la fatica, la stanchezza e il burnout insiti nell’obbligo di studiare online.
Quanto può fare bene alla salute mentale dover stare seduti per ore ad un computer, chiusi nella propria camera, a dieci, quindici o a vent’anni? Combattere con wi-fi malfunzionanti e voci di sottofondo, essere incollati al proprio doppio digitale e avere spazi personali negati in nome di istruzione o lavoro? In mancanza di soluzioni, non si aggiunga peso al peso dando a studenti già esausti colpe che non hanno, rimproverandoli per la loro inefficienza. E, per favore, basta con questa storia della pigrizia.
Francesca P.