“O sarai tu a controllare i tuoi atti, o essi controlleranno te.” — Paulo Coelho
Tick of the clock, dei Chromatics, non era ancora nata. Ma quel giorno, quel momento, sembra essere perfettamente descritto da quelle incalzanti sonorità. L’aggressione emotiva, sempre in costante aumento. Il tempo che scorre, passa, cala, aumenta, riprende, rinsavisce. Si spegne fino al silenzio. Ricresce, come fa il cancro quando pensi di poterlo controllare. Ti lascia riposare, muta, cambia forma. Non lo si capisce fino in fondo. Ma se si ascolta il suo ritmo, non si può che esserne trascinati. Battere leggermente il tallone per terra, a ritmo di suono. Di un suono che rappresenta esattamente come ciò che suona, e non viceversa. Di un suono che è perdizione controllata, austera ma non inelegante. Di un suono che prende e trascina, graffia e rovina. Un suono che è come il tempo. Come il tempo di quel giorno del ’99. Prima il temporale. Poi le nuvole, nessun soffio di vento, e il sole a inoltrarsi in cielo, seppur timidamente. E, infine, ancora quel temporale. Quella violenza brutale, incontrollata e incontrollabile proprio perché ancestrale, quella violenza che dice: è nato. Quella violenza seconda solo allo scorrere del tempo, che tutto conserva e niente innova. Quella violenza di quel giorno, in cui un vagito e l’ultimo sospiro si confusero, a poco meno di tre mesi di distanza. Un giorno, spalmato su una settantina. Ma, pur sempre, uno. La nascita e la morte, contemporanee. Una coimplicante l’altra. Ineludibile abbraccio inseato al ciclo di rinascite e morti a cui tutti, consapevolmente o meno, siamo sottoposti.
Come se quelle due esistenze fossero l’una escludente l’altra, proprio perché l’una la prosecuzione dell’altra. Che poi la rinascita si sia palesata prima della morte del corpo di cui quel pargolo era reincarnazione, poca conta. Limiti umani, che al cuore certo non significano nulla.
Il settimo giorno del dodicesimo mese dell’ultimo anno del millennio più tragico della storia, giocando a scacchi, quell’autore si spense. Divenuto tale negli ultimi 22 anni della sua vita, a seguito della pubblicazione dei suoi primi tre testi — Cervello, Cuore, Corpo — e dell’enorme successo da questi riscosso, aveva scoperto che, per quanto gli scacchi non smettessero mai di insegnargli a vivere, grazie alla scrittura aveva la possibilità di leggere se stesso, i propri cambiamenti, le proprie evoluzioni, soprattutto quelle scaturenti dalla scacchiera e da quel gioco che tanto aveva dominato la sua, apparentemente invidiabile ma di fatto misera, esistenza. Così, aveva pubblicato alcuni best — poi divenuti long — sellers: il vendutissimo , e, quindi, il quale venne definito dal Guardian “la più geniale opera letteraria del XX secolo”; l’allucinante distopia di orwelliana memoria, intitolata Prospettive umanoidee, ennesimo successo internazionale dello scacchista più famoso di sempre; e, ancor più, Memorie dell’Aldilà, testo scritto senza punteggiatura, con uno stile direttamente figlio della scrittura eraclitea. Ricapitolando, questi aveva giocato 168 partite di scacchi, vincendone 167 e perdendone una con un errore francamente inspiegabile, quasi troppo dissonante dalla sua immagine per essere catalogato come tale; aveva pubblicato tre libri, tutti di enorme successo; e, come combinato disposto di questi due fattori appena detti, aveva molti soldi — il che, nella apparentemente invidiabile ma di fatto misera società in cui viveva, voleva dire molte ragazze, molto successo, molta fama, molte possibilità. La sua condotta di vita, ritenuta da tutti esecrabile, nasceva da un ombroso trauma che non raccontò mai a nessuno. Come che sia, quel giorno di cui sopra, questo soggetto certo non facilmente dimenticabile, spirò. Una settantina di giorni prima, su per giù, questo soggetto (ancor vivo, all’epoca) si reincarnò in un pargolo venuto al mondo tra lo scroscio di un tuono e il ringhio delle pozzanghere.
Quando presero corpo le caratteristiche di quell’innocente creatura, una settantina di anni dopo, nel 2069, mi trovavo nella mia abitazione, rinchiuso senza ben sapere perché. Il mio appartamento dava su un paesaggio grigissimo, aveva un’unica finestra; l’acqua, a quel tempo, non era ancora scomparsa, ma la si stava centellinando ormai da parecchio. Dovevo essere — in quell’epoca che ora, da quassù, proprio non ricordo — autistico. O, meglio, rivedendomi dall’alto, direi che ne avevo tutte le caratteristiche. Ripetevo sempre le stesse quattro azioni. In ogni caso, fu l’ultimo giorno del nono mese dell’anno dianzi citato, che le caratteristiche di quell’innocente creatura, così poco peculiarmente definita proprio perché evidente reincarnazione dell’altra, vennero alla luce. Al compimento del suo settantesimo anno d’età, infatti, quello che ormai veniva trattato — in quegli anni in cui la reincarnazione era considerata un’ovvietà — come né più né meno del soggetto morto dopo la sua nascita, spirò. E fu morendo che dimostrò la sua, mai compresa, diversità. E, soprattutto, la sua radicale differenza dallo scacchista morto poco più di tre mesi dopo la sua nascita.
Quest’ultimo, infatti, il 7 dicembre del 1999, se n’era andato poco dopo aver messo la Donna in b3, e cioè studiando quell’apertura che tanto gli piaceva perché dava al suo pezzo forte la possibilità di attaccare tanto il punto b7 quanto il punto f7, morendo con un’eleganza davvero inusuale. Appena appoggiata la Donna bianca sulla scacchiera, infatti, si rese conto che qualcosa era finito. Non fece in tempo a sorridere per l’arrivo della morte che questa lo colse. Nulla più. Un sorriso. La testa che, con compostezza, si appoggia sul tavolo. Nessuno con lui, in quel momento di eterna solitudine. Un addio elegante, per una persona apparentemente invidiabile ma di fatto misera.
L’altro, invece, se ne andò in un modo che a tutti parve troppo dissacrante per poter davvero appartenere all’elegante scacchista di fama internazionale. Il 30 settembre 2069, infatti, sporgendomi dall’unica finestra concessami, vidi un clochard, con un libro, una bottiglia e una lametta in mano. Pensai a quanto fossi fortunato, seppur non uscissi di casa da tempo immemore. Non riuscii nemmeno a finire di contemplare il pensiero che lo misi a fuoco. Era lui. Non so perché, ma lo conoscevo. E lo riconobbi solo allora. Era il pargolo nato il giorno di quel terribile temporale. Non avrei voluto accorgermene, se solo avessi saputo cosa sarebbe successo di lì a poco. Scrutando interessato il mio vicino orizzonte, infatti, lo vidi rantolare. Lametta, bottiglia e libro caddero. Lui insieme a loro. Il vento soffiò rabbiosamente. Lo vidi vomitare. Piangere. Da solo. Rovinando rovinoso su una strada rovinata, perfetta metafora della parola migliore per descrivere la sua esistenza: rovina. A 7 anni, ricordai un istante dopo averlo visto spirare, tutti lo osannavano. A 12 piangevano per i suoi malanni. A 13 ne esaltavano la profondità. Fra i 14 e i 19 provarono a buttarlo giù in tutti i modi, e dai 20 in poi iniziarono a celebrarlo. E, più lo facevano, più questi s’inabissava. Il 29 settembre 2024 uccise la sua famiglia e tentò il suicidio. Venne salvato da un cassonetto della spazzatura, fortuitamente e sfortunatamente passato nell’esatto punto, nello stesso esatto momento, in cui questi cadde. Stette male per anni, ma quantomeno espiò le sue colpe. Si iscrisse, infatti, a un torneo di scacchi — la galera se l’era risparmiata proprio in ragione dello status dello scacchista di cui lui era ritenuto reincarnazione — e perse subito. E così fece, fino al penultimo giorno della sua vita, in cui vinse l’unica partita delle 168 giocate, grazie peraltro a un avversario che perse per un inspiegabile dell’imbecille. Dopo la vittoria, capì. E, così, passo dopo passo, si avviò su quella rovinosa via che raggiunse l’indomani. Lo vidi morire e, un attimo dopo, morii anche io.
Sondrio. Casa mia. 11 marzo 2021. Nottata difficile. Chissà perché tutte quelle immagini. Primo uno scacchista geniale, poi uno fallimentare. Progetti, sogni e paure, oltre a neutre narrazioni. Tutto mescolato senza un senso. Meno male che la notte è finita, penso. Mi alzo dal letto. Latte e corn flakes come sempre.
Accendo il PC; entro su Teams. A breve inizia Storia moderna. Apro Chrome; entro sul sito del Fatto Quotidiano.
La pagina, inspiegabilmente, quasi come se ci fosse qualcuno a controllare lo schermo di cui credevo di esser proprietario, mi reindirizza.
C’è una frase, di Coelho.
Ora capisco, finalmente.
Tutto.
Perché capisco — anzi, vivo — quella frase.
Perché, anche se oggi ancora non lo so, quella frase mi salverà.
“O sarai tu a controllare i tuoi atti, o essi controlleranno te.“
Federico
Bellissima prosa. In grande evoluzione. Più chiara per chi la legge e più semplice per chi come il sottoscritto adora la semplicità. Resta l’allucinazione del racconto: difficile da capire se sei tu a scrivere di cose tue, un alieno, dove, come, quando, perchè. Ma ho imparato a conoscerti. Sei fatto così! E va bene.
Come al solito, prendo qualche spunto dall’incipit di Coelho. Come certo ricordi, la ragione per cui ho scelto Filosofia era dettata dall’interesse per la scienza e in particolare per la sua figlia (di secondo letto): la tecnologia. Dobbiamo averne paura? si assolutamente.
O sarai tu a controllare i tuoi atti, o essi controlleranno te, vista nella prospettiva del significa che se non controlli le interazioni social, gli smartphone, le TV, la digitalizzazione di tutto, le microspie, le carte di credito, le telecamere…………………………, noi perderemo la nostra libertà.
E capiterà (forse già succede, che le interazioni social, gli smartphone, le TV, la digitalizzazione di tutto, le microspie, le carte di credito, le telecamere già ci controllino. Cosa può fare la filosofia? la COSCIENZA CRITICA di chi non ha interesse ad avere coscienza.
Lo stesso vale ovviamente per la politica, per l’economia, per la comunicazione sociale: se non vogliamo essere privati del controllo dei nostri atti, dobbiamo essere filosoficamente preparati. Non ad una lotta di resistenza ma di attacco.
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Molte grazie del tuo usuale, e usualmente prezioso, commento
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