Un mondo fluttuante

Ciò che penso di conoscere del Giappone – scopro appena dopo averne scritto un’introduzione sentimentale – è del tutto soggettivo: la mia esperienza è talmente circoscritta da non riuscire minimamente ad abbracciare la totalità di un mondo a sé. Mi limito a sensazioni e racconti che vengono da lontano, nel tempo e nello spazio, e su queste formo la mia personale idea che potrebbe rimodellarsi da un momento all’altro.

Osservo il processo di composizione degli origami che di tanto in tanto riporta il mio ragazzo alle proprie origini; vederlo assorbito nel piegare i foglietti di carta colorata, sapendo esattamente quali passaggi dovrà eseguire per creare un fiore con tutti i suoi petali, mi affolla la mente di antiche sensazioni: quelle che provavo da piccola accarezzando il pennello, con quell’acquerello su di un foglio di carta, o scegliendo la mia stampa preferita per il découpage, mentre annusavo l’odore della vinavil con cui avrei iniziato a pennellarla fino a farla aderire all’oggetto da decorare. 
Erano momenti di contemplazione, precisa lentezza e soddisfazione totale. Quelli che ci si disabitua a provare quando si cresce e arrivano incombenze da portare a termine, meno concrete e immediate ma considerate più importanti. Le cose fini a se stesse perdono valore, con il passare degli anni. Sono passatempi per quando non si ha niente da fare, mai e poi mai andrebbero anteposte ai propri impegni. E’ così che si inizia a disperdere la propria anima creativa.

L’espressione “mondo fluttuante” mi ha colpita non appena l’ho sentita nominare; vuole descrivere un linguaggio artistico nato in Giappone intorno al XVII secolo votato alla leggerezza e all’effimero, che nella pittura non considera né le ombre né la prospettiva e riduce al minimo le sfumature di colore. I soggetti non sono sacri o solenni, non c’è alcun messaggio morale da trasmettere; sono messe invece al centro le sensazioni che scaturiscono dalle visioni di natura o scene di vita quotidiana. Il concetto di fine a se stesso non appare essere un problema; quello che invece in Occidente è quasi un peccato. Ciò non toglie la solennità dell’arte vissuta in questo modo: il famoso Hokusai, che dipinse La grande onda di Kanagawa, riteneva le proprie opere della giovinezza non degne di essere classificate come tali: la sua arte non dipendeva tanto dal contenuto, quanto dalla bellezza della sua forma, che con la vecchiaia si perfezionava sempre di più.

L’arte degli origami mi incuriosisce tanto quanto la corrente artistica del mondo fluttuante: è testimone del fatto che l’arte non debba essere per forza qualcosa di impegnato, pregno di significato e accessibile a pochi; la costruzione di origami è innanzitutto un processo insegnato ai bambini giapponesi fin dai primi anni di vita. 
Da fragili pezzi di carta si ricavano forme inaspettate; dalle più basiche, fino a composizioni straordinariamente complesse, alla cui base ci sono sempre, comunque, passaggi chiari e razionali.
L’importante è procedere passo dopo passo, muoversi delicatamente ed essere sempre presenti. A volte basta un minimo di distrazione perché il foglio si spezzi o che si salti qualche passaggio fondamentale.

Questo mi riporta allo spirito fondamentale della mia pratica buddhista, permeata dalla stessa essenza figlia di questa cultura. Il mio maestro si concentra molto su quale sia l’atteggiamento giusto nella pratica: recitare il mantra con costanza giorno dopo giorno, con la mente lucida e i sensi ben attivi, senza aver fretta di vedere manifestarsi i benefici che ne derivano. Bisogna sforzarsi di non divagare in nessun altro luogo con l’immaginazione; allo stesso tempo è importante sentirsi a proprio agio per mettere davanti al Gohonzon, l’oggetto di culto per l’osservazione della mente, tutti i pensieri e le sensazioni che ci turbano fino a liberarsene. 
Più si è leggeri di testa e di cuore, più sarà facile abbandonarsi al suono del mantra e fare sì che questo sia efficace. Ogni pesantezza va abbandonata in questo tipo di preghiera. 
Fare un origami può richiedere la stessa partecipazione che si mette in un atto di preghiera. 
Da quello che la mia esperienza mi ha suggerito finora, i giapponesi sono esperti nell’arte del porre attenzione alle cose della vita quotidiana; a partire dagli oggetti costruiti a mano e fabbricati, dalle parole scelte per rivolgersi a un’altra persona, dalla varietà dei doni fatti in ogni occasione, dal cibo che da nutrimento diventa arte. 
Quello che percepisco è che in questo mondo l’arte riesce a essere quotidianità e frivolezza, e contemporaneamente profondità e intenzione.

Un fenomeno sconcertante per noi occidentali è la convivenza di due concetti opposti: la cultura orientale non ha problemi ad ammetterne la possibilità, consapevole che la complessità del mondo deriva anche da questo. Spesso anche noi siamo costretti a vivere nelle contraddizioni, ma è difficile che riusciamo ad accettarle come un fatto naturale. Quasi sempre vengono considerate sbagliate, irrazionali e quindi da risolvere. 
Eppure è così bello, specialmente nell’arte, vedere che non ci sono limiti al pensiero, che si possono unire fra loro gli elementi più distanti senza che uno annienti l’altro.
Così anche la leggerezza può essere dotata di profondità, e non essere ridotta a una divagazione dalla realtà, ma piuttosto come una parte di questa.

Valeria Delzotti

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