Di recente penso spesso a Musica Leggerissima. Certo, non sono la sola, visto che ormai è diventata un tormentone ufficiale di questa primavera 2021.
Scelta peculiare da parte della rete. Una canzone che, al netto di un ritornello accattivante e di una melodia piacevole, parla di depressione, alienazione, di vuoto esistenziale. Una canzone che cammina sull’orlo del baratro su cui ci troviamo da quasi un anno. Una canzone che nel farlo chiama in gioco il noi, questo difficile pronome plurale, e così riunisce una collettività frammentata nella consapevolezza di un comune malessere e della volontà di evaderne. Insomma, un inno alla distrazione per un paese in crisi, ma anche un implicito riconoscimento di una comune stanchezza.
Siamo stanchi. Esauriti. Ormai conviviamo con la pandemia da quasi un anno, e non sembra esserci verso di uscirne. All’inizio dell’emergenza, in mezzo al disastro generale e al lockdown, c’è stato un afflato di solidarietà. Cartelli sui balconi, messaggi che incoraggiavano alla resistenza, applausi agli eroi del servizio sanitario nazionale. Marzo scorso, sembravamo entrati nel mondo di World War Z, e potevamo almeno sperare di trovarci a fianco di Brad Pitt nella lotta agli zombie. Potevamo sognare una lotta difficile ma eroica e, dopo qualche morte necessaria (già riflesso di un egoismo narrativo), il nostro meritato lieto fine.
Questo eccessivo ottimismo, costruito in parte su una legittima speranza, e in parte sul desiderio di ritornare il prima possibile a una normalità già di per sé disfunzionale, si è scontrato in fretta con la complessità dell’emergenza.
A un anno di distanza, non siamo ancora al lieto fine, anche se qualche notizia positiva pare emergere.
Intanto, l’afflato iniziale si è prosciugato e la narrazione è cambiata. Nonostante la situazione sia oggettivamente migliorata rispetto a un anno fa, le notizie sono sempre più catastrofiste e il morale generale oscilla tra un’ostentata indifferenza e un’ossessione per il disastro. E un profondo senso di solitudine. Niente più cartelloni, o incoraggiamenti, al loro posto diffidenza. Persino gli eroi del servizio sanitario nazionale sono tornati ad essere semplici lavoratori e nel peggiore dei casi trattati come fossero untori.
Dall’epica siamo passati al romanzo, dal blockbuster hollywoodiano siamo entrati in un claustrofobico racconto di Kafka. Siamo il topo intrappolato in un angolo, siamo il messaggero che non consegnerà mai il suo messaggio, siamo Gregor Samsa mutato in scarafaggio che si sveglia sul dorso e, per quanto si agiti, non riesce a girarsi.
Questa sparizione di un orizzonte collettivo proprio nel momento di maggiore stanchezza e fragilità non deve sorprendere. Al di là del momento di entusiasmo di marzo scorso, abbiamo vissuto negli ultimi decenni un progressivo indebolimento del senso di comunità. Al cuore, noi occidentali moderni siamo degli individualisti. Lo siamo diventati da Margaret Thatcher che predicava l’inesistenza della società, da modelli economici che favoriscono l’arricchimenti di pochi individui per un presunto bene dei molti, e poi scherniscono i molti che non fanno parte di quella ristretta cerchia, dall’americano culto del “self-made man”, l’uomo che si fa da solo, e dal parallelo disprezzo di chi non riesce a farsi da solo e ha bisogno dell’aiuto degli altri. E per decenni le strutture democratiche e gli apparati di welfare pubblico hanno risentito di questa visione individualistica.
La pandemia non ha fatto altro che rendere evidenti debolezze già da tempo esistenti. Come un servizio sanitario pubblico indebolito da anni di finanziamenti spostati ai privati, e di per sé svalutato solo per il fare parte di strutture statali. O come i vizi di una politica abituata ad agire in un mondo a parte, spesso senza rendere conto agli individui che vorrebbe rappresentare- o accontentarli solo facendosi bandiera del più becero e vacuo populismo.
Un reportage della sociologa Zeynep Tufekci, uscito originariamente su The Atlantic, pubblicato qualche settimana fa su Internazionale, conta tra le cause della cattiva gestione della pandemia una comunicazione paternalistica da parte dello stato. Si è preferito creare divieti rigidi e regole troppo precise piuttosto che informare sui meccanismi di diffusione del virus. L’atmosfera di severità si è rivelata controproducente: sarebbe stato più efficace dare informazioni più complete, stabilire regole più mirate e lasciare qualche spazio al senso di discernimento di ciascuno. Ma l’essenziale sfiducia dei cittadini dello stato, e dello stato nei cittadini, ha fatto sì che lockdown inutilmente restrittivi (con la chiusura dei parchi per esempio) fossero seguiti da eccessivi ritorni alla libertà siano stati l’atteggiamento più comune. Un altro errore è stato dare troppa enfasi alla responsabilità del singolo, e troppo poco all’importanza di creare reti sociali di sostegno. Tufekci sottolinea che “l’attenzione alle azioni individuali ha avuto i suoi lati positivi, ma ha anche portato all’esclusione di una parte considerevole delle vittime della pandemia dal discorso pubblico”.
Ovverosia di coloro che, per situazioni personali, non potevano permettersi il lusso della scelta di lavorare a casa, o smettere di farlo. I quali hanno finito per essere la maggioranza delle vittime di questa pandemia, proprio per il loro collocarsi nella porzione più debole della popolazione. Così si scopre come mai il senso di comunità dell’inizio si è rapidamente sfaldato: perché basato su un racconto univoco, e dunque posticcio. Dire “ce la faremo” suona come una beffa per chi è costretto a lavorare senza misure di sicurezza, da chi si trova marginalizzato da anni o per chi, come i membri della comunità asiatica, hanno visto aumentare esponenzialmente i crimini d’odio negli ultimi mesi. Non bastano cartelli sui balconi o spot ripetuti ossessivamente dalla Rai a cementare una comunità: serve una narrazione comprensiva di ogni situazione, anche quelle più svantaggiate o marginali.
Dunque ha ragione Recalcati a invocare su La Stampa un ritorno alla comunità e alla fiducia nelle istituzioni. Ma non può essere una fiducia unilaterale, e deve essere suffragata dalla costruzione di quelle reti sociali, psicologiche e sanitarie che erano state spesso evocate marzo scorso. E non può nascere da un’ottimistica visione di un popolo eroico in lotta unitaria contro un male invisibile. Semmai, dovrà germogliare da una narrazione complessa di tanti sforzi diversi, ciascuno degno di considerazione e degno di essere raccontato, accomunato non da proclami vuoti ma dal riconoscimento di una comune stanchezza.
Una social catena, come evocata da Leopardi nella ginestra, dunque nata dalla consapevolezza della fragilità umana, dei disastri sparsi ovunque, e dallo spettro del fallimento. Dell’esaurimento. Perché siamo esauriti.
Tuttavia siamo ancora qui, a mettere musica leggera e mimare un balletto per esorcizzare un baratro. E riunirsi per dare voce a questo malessere diffuso è già una forma di resistenza.
Francesca P.