Corpo

Governa la tua mente o lei governerà te.” — Horace Mann

La lezione di Storia moderna è finita. Tra mezz’ora inizia Storia del giornalismo.
Penso a cosa io possa fare in quei minuti e, come spesso accade, assalito dal dubbio, è altri a decidere. Suona il telefono: dovrebbe riguardare Bottega. Rispondo, a metà fra il piacere e la circospezione.
«Stai male?», chiedo con preoccupazione, non appena capisco che non è della rubrica che dobbiamo parlare.
Quando lei inizia a rispondere, sento echi lontani di una voce remota. Il secondo prima mi chiedo cosa stia succedendo, il secondo dopo mi rispondo: quella voce non c’è, c’è solo la telefonata.
« … e quindi, come ti dicevo, ho iniziato a diffidare di lei, a controllarla, a seguirla… lo so, fa schifo, ma non sapevo cosa fare, ero disperata, capiscimi… che dovevo fare?», le sento dire.
Vorrei dirle che probabilmente aveva parlato per cinque minuti ininterrottamente e che io, a stento, avevo compreso gli ultimi dieci secondi. Oppure vorrei essere così bravo da inventare una risposta in quell’infinitesimale attimo che divideva, imperscrittibilmente, il mittente dal destinatario, e il messaggio dal messaggero. Vengo, però, colto da un rumore improvviso. Un tonfo, lo definirei così. Mi volto, alla ricerca della fonte del rumore, e quando vedo — al posto della cucina — una scogliera, capisco. È successo di nuovo, a quanto pare.
Mentre razionalizzo, una voce femminile mi scuote: «Ehi, sei vivo?» — il tono è ironico, ma la preoccupazione è tangibile.
Riesco a emettere, senza bene sapere come, una sorta di frase — o, per meglio dire, un lungo soffio di parole, pronunciate meccanicamente, che suonano all’incirca così: «Sì sì, scusa, mi sa che ti ho perso qualche secondo… che dicevi?».
Faccio appena in tempo a sentire quello che classicamente si definisce come un sospiro di sollievo. Subito dopo, mentre la voce riprende la sua spiegazione, un terzo scossone. Sento il fianco gridare, lancinante, e implorare pietà. Mi rivolgo a lui, e lo supplico di lasciarmi in pace. La voce, stavolta infastidita, interrompe l’interlocuzione. «Ma ci sei sì o no?», la sento domandare.

Quando davanti ai miei occhi, sul tavolo di casa mia, proprio lì, davanti al mio PC, vedo quella cosa, non provo nemmeno a rispondere. Esterrefatto, strabuzzo gli occhi.
Non può essere vero. Eppure è lì. Davanti a me.
Non può essere vero, eppure lo è. È lì.
Lei è lì.

Nuda, anche se solo parzialmente, e in punti non visibili. La vedo, piano, posare le dita, una dopo l’altra, sui tasti. Delicatamente, con un movimento ch’è dolcezza e poesia, li sfiora — e quelli, delicatamente, rispondono.
Non ho bisogno di far passare neanche due secondi, la riconosco subito. Lacrimosa, di Preisner.
Ma poi, pochi secondi dopo, uno stacco. E poi, con veemenza, le dita creano altre musiche. Anche in questo caso, non serve tempo, neppure minimo. La riconosco subito. Demons, degli Imagine Dragons.
Stravolto dalla potenza devastante di quell’immagine, provo a concentrarmi su ciò che vedo, e non su ciò che sento. Un pianoforte a coda, sostenuto dal tavolo di casa mia. Una ragazza bellissima, con occhi perlacei, accennando un sorriso, compone. Una corona di foglie le stringe il collo. Dei lapislazzuli coronano il suo trapezio superiore. Gocce d’ambra le bagnano le labbra, e queste ammiccano nella mia direzione. Dietro questa meraviglia, il cosmo in tutta la sua potenza, in uno scenario che trascende la stanza, che distrugge le pareti, che allarga i confini dell’umana comprensione. Più mi concentro su quell’immagine tanto implausibile quanto reale, però, meno riesco a smettere di sentire la musica. Come se, strutturalmente, facesse parte del proscenio tanto quanto quella pianista e tutto il resto. E, risentendola, mi accorgo che è molto cambiata. Non la riconosco subito. Deve passare almeno mezzo minuto, forse di più. Poi intercetto le note, le ripercorro, le riconosco, ma non ricordo il titolo. Passa un altro minuto. Finalmente, il titolo mi sovviene — Somebody That I Used To Know, di Gotya.
Di colpo, però, subito dopo la comprensione, ritorna lo straniamento.
Un gracchiare, proveniente dalle mie spalle, mi spaventa. Mi volto, e li vedo: schiere di corvi. Sono lontani, la finestra è chiusa, eppure li ho sentiti lo stesso, e li vedo avvicinarsi. Mi rigiro, stanchissimo, sperando di farmi confortare da quella meravigliosa musica.

Quando lo sguardo si posa, però, intravedo l’infinito. Le stelle sono sparite, e con loro la mia conoscenza.
Tutto è nuovo, diverso, estraneo.
Ferito, con le lacrime a pulsare e reclamare spazio, concentrato nel ricacciarle indietro, la vedo, ancora.
Lei, di nuovo.
Questa volta, la pianista non suona. Muove, piano, le braccia. Le incrocia, le fa vorticare, e balla con loro. I fiori, apollinei, la accompagnano.
Fuori, una brezza autunnale scompone appena le foglie già cadute. Dentro, un violento temporale inquadra quella meravigliosa figura.

Alcuni filosofi, penso, per il fatto che l’uomo pensi a parole, ritengono che sia il linguaggio a distinguerci dalle altre specie. E il mio ultimo pensiero, prima di questa breve parentesi non autorizzata da altri se non dal mio cervello, lo conferma: quella, pensavo con parole, per quanto strano, è una pianista che balla. Una pianista che balla, mi ripeto, stranito da come suonasse quel pensiero. Ancora attonito, dimentico di qualcosa ch’ero certo ci fosse, provo a scandire una parola per volta: una/pianista/che/balla. Mentre sto ripetendo quel pensiero per la terza volta, qualcosa mi travolge. È la potenza, dissacrante, del ricordo. Ma come ho fatto a non pensarci, mi domando irritato.
Una pianista che balla / la regina, e passa oltre.
Quel, dannatissimo, verso. Così avevo esordito, molti anni fa, tentando di introdurre a mia sorella l’orribile incubo che, per dirla con le parole del suo autore, mi aveva strappato dal sonno, forse per sbaglio, e buttato fuori dal treno in una notte di passaggio.
Quel maledetto incubo teneva insieme un clochard, mio nonno, io, gli scacchi, delle lamette, una bottiglia d’alcol, uno scenario futuristico e, soprattutto, una pianista che balla. Al fianco della pianista, una scacchiera d’oro e seta. A ogni movimento della pianista, un movimento di un pezzo. Fino a quel movimento. Il matto dell’imbecille. Il matto più puerile del gioco, fatto al miglior scacchista di sempre.

Quando capisco, storicamente, mi calmo. È così anche adesso. Comprendo, finalmente, che quel pianoforte, quella pianista, quella scacchiera, e chissà, forse anche quella telefonata, non solo ora non ci sono, ma neppure ci sono mai stati.
Scrollatomi di dosso quella visione, fiaccato dalla massacrante esperienza sensoriale, guardo l’ora.

11:29. Ho un minuto, poi inizia Storia del giornalismo. Mi domando come sia possibile che, ancor oggi, si possa sostenere che corpo e mente siano due, e non Uno. Che si provi ad alimentare l’uno e contemporaneamente anche l’altra, come se fossero enti diversi.
Io, penso quasi divertito, dopo una notte in cui ho visto i miei traumi passati, i miei timori futuri e le mie paure presenti; dopo una visione che al suo interno aveva un’altra visione rappresentante un incubo ricorrente, anticipata da una telefonata fittizia interrotta da tre suoni mai realmente emessi; dopo aver sperimentato Amore e Morte; io, penso ancora, dopo tutto ciò, dovrei davvero pensare che sia colpa del corpo o della mente, del cuore o del cervello, del conscio o dell’inconscio? È ridicolo, suvvia.
Noi, penso con fermezza, siamo uno. Ed è in questa contraddizione letterale che, mi ripeto, ormai sicuro, trova spazio l’alterità che ci costituisce tutti, ciascuno diversamente dall’altro.

Vedo comparire, nell’aula virtuale, il consono avviso. La riunione è avviata, inizia lezione. Provo a concentrarmi, e incredibilmente ci riesco.
Prendo appunti qualche minuto, poi un suono inusuale mi distrae. Faccio per mettere il silenzioso, ma l’occhio cade poco più sotto. Un sito dal nome ridicolo mi chiede se voglia iscrivermi a una loro newsletter: una frase al giorno e il profilo dell’autore. Stizzito, entro su Gmail per eliminarla.
Di nuovo, però, prima di appoggiare il pollice sul simbolo del cestino, vedo la frase con la quale il sito sta sponsorizzando la newsletter. Incredulo per quell’apparente coincidenza, sorrido.
La leggo, la riconosco senza vedere il nome dell’autore, anche se è ovviamente presente.
È perfetta.
La mail la elimino, per carità, ma Epitteto aveva proprio ragione.

Nessuno è libero se non è padrone di se stesso.

Federico

Una opinione su "Corpo"

  1. Caro Federico, aspettavo con una certa ansia il tuo pezzo dopo la chat di ieri.

    Come sempre mi stupisci per quell’impasto di concetti, sensazioni, ricordi, emozioni che riesci a mettere insieme.

    Io credo (aspetto conferme!) che tu parta da un barattolone pieno di pezzettini di vita tua, di altri, ricordi lontani e vicini, letture, canzoni, fotogrammi: è il tu box del puzzle. Ognuno vi si perderebbe o ne ricaverebbe un impasto di ripetizioni noiose. Tu hai la capacità di mettere in ordine le tessere.

    Ormai tuttavia mi sento gradualmente sempre più lontano dalle tue emozioni: mi è difficile cogliere il tuo percorso, quel filo conduttore che pure c’è. Non so più fare ermeneutica (sic!): bisognerebbe che ci vedessimo, ci parlassimo.

    Uno direbbe: questo pezzo è come in un quadro di Pollock! Ho l’impressione che la cosa sia più complessa.

    Ci sono placide melanconie tragiche di Rotko, velocità supersoniche di Aleksandra Aleksandrovna Ėkster, note di Severini e Balla; luce e buio.

    E’ un turbinio di cose che ho difficoltà a seguire; colgo gli incastri (perfetti) mi sfuggono i pezzi.
    E’ il mio cruccio dell’avanzare degli anni. Da un lato mi restano i ricordi e il desiderio di contemplare il ‘bello scrivere’ ma il messaggio ricevuto si stempera nell’emozione mi dà la sola ‘forma’ del tuo testo.

    Non ho resistito a cercare su YouTube alcuni dei brani che nomini o dei personaggi di Netflix.
    Su tutto per me domina incontrastata la citazione di Lacrimosa, preludio e colonna sonora all’Albero della vita: struggente intensa melodia che rende la morte più accettabile……

    Quando ho cominciato a seguirti ti scrissi che scrivi una prosa che è quasi poesia. Lo è davvero lo confermo volte 1000

    Luciano

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