Il Giappone non è solo una donna in kimono, truccata e pettinata come una bambola, che si piega rispettosamente per servire il tè su tavolini incassati a terra, un uomo d’affari soddisfatto nel suo ufficio splendente in cima a un grattacielo che si affaccia sulla metropoli.
Il Giappone è anche un uomo d’affari che all’uscita dal lavoro decide talvolta di appisolarsi per un momento alla stazione del metrò oppure di ubriacarsi fino allo sfinimento con i colleghi che poche ore prima in ufficio erano impeccabili; oppure una ragazzina che, dopo essersi tolta la divisa scolastica, si traveste dal suo personaggio manga preferito per andare a sfilare insieme ad altri coetanei nel quartiere più eccentrico di Tokyo.
Stranezze, esternazioni improvvise, follia mescolata alla vita quotidiana, giocosità: tutti aspetti che riflettono caratteri alternativi e allo stesso intrecciati all’armonia, il rispetto, la tradizione, l’ordine, l’efficienza, la modernità, il benessere.
La lingua giapponese rappresenta ai miei occhi stupiti e inesperti tutto ciò che solitamente si lascia in secondo piano: estremamente mirata a esprimere l’inesprimibile, attraverso le onomatopee più buffe e i termini specifici per ogni cosa, si spinge sempre un po’ oltre rispetto all’apparenza di una cultura seriosa e indecifrabile.
Con “goro goro”, ad esempio, si vuole richiamare al tempo stesso sia i rumori del rombo del tuono, delle fusa di un gatto e del gorgogliare di stomaco, sia l’atteggiamento di oziare con piacere, passare del tempo di qualità senza nessuna attività da svolgere. Quel che mi colpisce tanto di questa espressione è il fatto che sembri escludere a priori il senso di colpa — quello che sempre mi coglie quando scelgo volontariamente di “perdere tempo” — , e anzi richiamare quasi una soddisfazione nell’osservare il tempo che passa.
Non penso ci sia un’espressione migliore per controbilanciare l’idea di una cultura completamente assorbita dal lavoro e tormentata dal senso del dovere; pur essendo questa una tendenza significativa della società giapponese, la sua controtendenza mi sembra più interessante perché è quello che da una prospettiva esterna non ci si aspetterebbe mai.
Questo particolare utilizzo della lingua giapponese, che potrebbe essere paragonato alla tipica gestualità italiana, è immediato e concreto, non necessita di troppe spiegazioni, si forma sulle percezioni e mette in luce l’anima infantile e leggera che spesso si nasconde dietro l’apparenza.
Anche i tre sistemi di scrittura, hiragana, katakana e kanji – che sono spesso un richiamo visivo a vere e proprie immagini più o meno riconoscibili – rispecchiano un linguaggio intuitivo e concreto, che pone sullo stesso piano cose e concetti. I contenuti stessi della poesia nipponica sono spesso un elogio alle cose fisiche e alle manifestazioni naturali come parte di un tutto, di cui è compreso anche l’essere umano.
La forma degli haiku rende in tre soli versi un mondo di sensazioni e visioni all’interno della realtà quotidiana, una fusione con la natura attraverso l’ascolto. Matsuo Basho (1644 – 1694) ne scrisse molti, fra i quali:
Vieni, andiamo,
guardiamo la neve
fino a restarne sepolti.
oppure
La campana del tempio tace,
ma il suono continua
ad uscire dai fiori.
La poetessa Kaneko Misuzu spese invece tutta la sua breve e tragica vita nella scrittura di filastrocche per bambini che rimasero inedite fino a quando non furono rivalorizzate e pubblicate decenni dopo la sua morte, avvenuta nel 1930.
Con “Il grande pesce” la poetessa riesce a restituire un valore di per sé a quelle forme di vita che generalmente vengono considerate inferiori all’uomo; questa sensibilità deriva a mio parere dalla concezione di non-dualità tipicamente orientale, che non vede distinzione tra corpo e mente, materiale e immateriale, ma soprattutto, in questo caso, tra individuo e ambiente:
Rosso mattino, scaglie di pesciolino.
Una sarda grande e fresca,
il bottino della pesca.
Sulla battigia si fa festa…
ma nel mare,
migliaia di sarde
stan celebrando un funerale.
Questo ribaltamento di prospettiva è particolarmente interessante perché all’interno di una riflessione triste e profonda è contenuta una certa dose di divertimento e follia inaspettati, che lascia leggermente stupiti noi occidentali.
Ci lascia altrettanto sconcertati l’estrema semplicità dei versi haiku che si concentrano su un’unica, precisa percezione, priva di un retroscena di significati divini o razionali.
Quel che dev’essere trasmesso non ha bisogno di giustificazioni. Non ci si preoccupa di essere troppo poco seri o esplicativi.
Il Giappone è anche contrasti sociali, ingiustizie, ribellioni.
Non a caso il femminismo esiste anche qui. Ho trovato un’interessante pubblicazione online, che si potrebbe definire come una fanzine, ovvero una rivista amatoriale su un particolare fenomeno culturale: “Kotodama” si prefigge di raccontare il Giappone sotto gli aspetti più disparati, a partire (nel primo numero pubblicato) dalla condizione femminile in Giappone.
Spesso quando si parla di cultura si immagina un blocco compatto di idee, visioni e creazioni. Eppure il femminismo, nella sua accezione più generica, ovvero quello di movimento di rivendicazione dei diritti economici, civili e politici delle donne, mi sembra l’esempio più eclatante di come all’interno di una cultura che pare un tutt’uno estraneo a quella di chi vi parla, vi siano gli stessi contrasti che regnano nel mondo occidentale, anche se declinati in modi differenti.
Nella rivista appena citata mi hanno colpito due articoli in particolare: uno riguardante K. Misuzu, la poetessa di cui ho già riportato due filastrocche, che nella sua vita subì continui soprusi – sintomi dalla società patriarcale in cui era immersa – fra cui proprio quello di essere stata sempre ostacolata nel pubblicare il frutto del suo lavoro creativo; il secondo parla di Yosano Akiko, un’altra poetessa che viene ricordata per aver portato avanti in prima persona una visione femminista in quanto con i suoi componimenti rivoluzionò al tempo stesso la forma dei tradizionali tanka, poesie brevi che fino ad allora avevano sempre seguito lo stesso schema, e il modo di concepire il corpo femminile. Da oggetto passivo, destinato a essere ammirato come il corpo finto di una bambola tradizionale, a soggetto capace di autodeterminarsi e mostrare di sé anche ciò che fu all’epoca, nel 1901, fonte di grande turbamento: nei versi della poetessa comparivano elementi estremamente corporei come il sangue e il seno, di cui lei si riappropriava in quanto donna, esponendoli alla luce del sole senza più vergogna.
L’arte di Y. Akiko contribuì dunque alla nascita dell’idea di una “nuova donna”, che venne poi sviluppata dalla prima rivista letteraria femminista giapponese.
Questa ribellione all’impostazione sociale di un mondo che era sempre stato dominato da uomini, come nel resto del nostro pianeta, non può che offrire una visione del Giappone diversa da quella che conosciamo, di perenne ordine sociale e massima obbedienza all’autorità.
Per smantellare l’idea comune di cultura come di un tutto unificato e conforme a se stesso, vorrei conoscere sempre meglio gli elementi sotterranei di quella del paese del Sol Levante, così attraente anche nei suoi cliché – non per smentire questi ultimi, ma piuttosto per darne una nuova interpretazione.
In effetti è proprio dalle sue contraddizioni che ne emerge la vera identità.
Valeria Delzotti