L’intervista a Erika Cancellu

Cara Erika, le nostre strade si sono incrociate in un evento tenuto a fine marzo, ideato da me e realizzato soprattutto grazie a Benedetta, autrice di Una cosa bella (edito da Divergenze) e, per anni, componente fondamentale della nostra redazione. Lì sei stata presentata, in maniera piuttosto rapida, come direttore della collana (Ec)citazioni. Vuoi dirci, ora, qualcosa di più? Quali tappe ti hanno condotta sin qui, e qual è stato il tuo percorso lavorativo e non solo?
Ciao Federico, grazie per la proposta e per lo spazio!
La collana (Ec)citazioni è nata lo scorso anno per Divergenze, per dare spazio a quelle che definirei delle scorribande culturali. Pubblica saggistica, per es, Metafisica del sottosuolo di Antonina Nocera o Ermeneutica di Leoncavallo di Alessandro Cotroneo, sui Pagliacci, o raccolte di poesie, Elegia ambrosiana del Collettivo K, o racconti, Je suis Charlie di Eva Luna Mascolino.(Ec)citazioni esiste grazie alla redazione, e soprattutto grazie al “capo”, Fabio Ivan Pigola, che è il nostro direttore d’orchestra (e che è una persona straordinaria). La redazione è composta da volontari, per esempio, io insegno al liceo classico, e gli introiti della casa editrice vanno, tolte le spese vive, ad associazioni non profit — anche gli autori possono scegliere se versare i profitti a enti non-profit
Sono arrivata a Divergenze tramite un’amica, Francesca Veltri, loro autrice, conosciuta a Pisa. Fabio voleva ristampare Zuccoli e cercava qualcuno che ci lavorasse. Francesca ci ha messo in contatto. A questo punto ho telefonato al professor Romano Lazzeroni, il mio maestro, e a (Gian)Lorenzo, persona a me molto cara. Entrambi mi hanno incoraggiata, e, addirittura, Lorenzo, che in realtà fa tutt’altro nella vita, si è riletto il tutto prima che lo mandassi alla redazione. Da lì, Fabio mi ha sempre più coinvolta e lui ed alcuni autori sono diventati anche miei amici.

Prima cosa che ci siamo detti in quell’evento, anche in fase di preparazione, è stata l’importanza di calcare la mano su come le poesie del Collettivo K (che nell’evento andavamo presentando), raccolte sotto al nome di “Elegia Ambrosiana”, e il nostro Concorso, convergessero nel voler riportare la poesia fra le strade, diffonderla — ma anche riscoprirla, rivalorizzarla. Come si può procedere per fare questo?
Provo a rispondere, anche se non sono una sociologa e il mio punto di vista limitato mi farà apparire ingenua. Per me la questione è più ampia e coinvolge tutta la cultura. Mi sembra che un mix di cialtroneria e di ricerca dell’interesse immediato, non lungimirante, proponga esperienze culturali “al ribasso”, di consumo, con alcune, encomiabili, eccezioni. Questo causa un circolo vizioso: a volte mi sembra di essere tra ottentotti e parigini, per citare Berchet. Anche persone ritenute di cultura ormai fanno riferimento a un canone limitatissimo, trito e ritrito: su fb ho letto lamentele perché han dato su Rai5 il Pelléas et Mélisande, opera “sconosciuta” e dallo “strano” canto!
Da docente noto che i ragazzi si esprimono in modo sempre più semplificato. Non sono stupidi, anzi, la maggior parte dei ragazzi che conosco è molto in gamba, però sono stati proposti loro stimoli limitati e non li si abitua a rielaborarli. Inoltre, anche se conosco parecchie eccezioni — una classe mi ha proposto autonomamente attività di lettura! — i giovani, e non solo loro, sono più abituati agli strumenti elettronici che non a un libro. Lo smartphone è una baby sitter pericolosa: dà stimoli immediati, disabitua alla riflessione. Non sono misoneista, ma bisogna trovare una mediana nell’uso della tecnologia ed evitarne l’abuso, tornare al cartaceo. Chi viene per la prima volta in casa mia si stupisce per il numero dei libri, e non parlo di persone incolte, anzi. È sintomatico di una mentalità e bisognerebbe agire sulle cause profonde, economiche e sociali, che portano a questo atteggiamento, a questo allontanamento della cultura dalle strade. Hai notato quanto si vada verso il tutto e subito? La cultura, invece, si costruisce, con l’attenzione e la dedizione, con il sacrificio, come tutte le cose belle. Certo, la scuola, restituita alla sua dimensione più autentica, può avere un ruolo centrale in un processo di rinascita culturale, ma credo che vada coinvolta tutta la società, anche perché la fruizione di eventi culturali è correlata spesso all’ambiente in cui si cresce, e tutti dovremmo provare a fare qualcosa di là dei luoghi canonici e, soprattutto, delle consorterie. Magari, fare come Ipazia e Socrate, attaccare bottone con gli sconosciuti per strada per parlare di cultura, farebbe, nella migliore delle ipotesi, chiamare la neuro, ma è importante trovare spazi altri rispetto a quelli canonici per la cultura. Questi eventi esistono, anche promossi dalle scuole, alcuni funzionano con il tam-tam, ma spesso restano degli unicum separati dal mondo circostante, anche perché non si ha interesse a pubblicizzarli. Questo è un peccato: in realtà le cose belle riescono ad arrivare alle persone, certo, vanno forniti strumenti culturali per comprenderli, ma proporre poesia è un modo anche per migliorare, con un po’ di bellezza, il mondo in cui viviamo.

Come sai, per il nostro Concorso abbiamo ricevuto 172 poesie, e le vincitrici sono due under-25. Ti sorprende una partecipazione così massiva e giovane oppure credi che la poesia sia molto più diffusa di quanto non si creda, e piuttosto sia da evidenziare e riscoprire?
Ti rispondo con una citazione. Fino a diciotto anni tutti scrivono poesie; dopo, possono continuare a farlo solo due categorie di persone: i poeti e i cretini, che è una battuta, notissima, di Benedetto Croce. Fuori dalla citazione, io posso parlare solo della mia esperienza. La maggior parte dei miei studenti sente molto la poesia, addirittura una mia studentessa mi ha spiazzata citandomi Rupi Kaur a memoria e spesso, quando recito poesie, anche se sono in greco o latino, non mi stupisco nemmeno più per l’assoluto silenzio in cui piomba la classe. È un po’ l’esperienza del “sublime” descritta dall’Anonimo, al di là degli strumenti culturali del pubblico. Posso aggiungere che molti miei studenti scrivono versi, magari per sfogarsi o per descrivere la loro vita o le loro emozioni. Spesso non sono nemmeno del tutto consapevoli di quello che stanno facendo, ma è come se in modo innato e spontaneo cercassero effetti sonori che vadano nella stessa direzione del significato che vogliono veicolare. Credo che in realtà molte più persone di quante si pensi abbiano provato a scrivere anche solo un verso, soprattutto se sottoposte a forti emozioni, quale sia poi il livello di questi tentativi naturalmente dipende da altri fattori, alcuni tecnici, altri innati, e sono sicura che tu lo abbia notato nel concorso.

Andiamo più sul punto specifico. Da direttore di collana quale sei, non possiamo non chiedertelo: tre libri di (ec)citazioni che ci consigli e tre parole, non una di più, per ciascuno per descriverceli.
Per primo inizio con il primo che abbiamo pubblicato, perché tutto è partito da lì. Metafisica del sottosuolo. Intersezione, studio, riflessione. Je suis Charlie. Indifferenza, impegno, bellezza. E ammetto di aver molto amato — sembra un gioco di parole — Gli amori malati di Nicoletta Prestifilippo. Potente, interessante, perturbante.

Federico Garcia Lorca diceva che “la poesia non cerca seguaci, cerca amanti”, quasi a sottolineare una netta prevalenza della componente emotiva su quella di intellezione. Ma è davvero solo una questione di amore e sentimento? E quali ingredienti deve avere la poesia, a tuo avviso, per essere buona poesia?
Per me è il percorso culturale e personale di ognuno che fa valorizzare aspetti diversi della poesia. D’altronde è un genere che si è declinato in vari nelle differenti culture, ha assunto innumerevoli funzioni (religiosa, magica, epica, narrativa, lirica, didascalica) e forme, dunque, si presta a essere letto con innumerevoli lenti. Ecco, per me la poesia cerca amanti perché necessita una dedizione totale, come quella amorosa, e trovo pericoloso fermarsi alla sola componente emotiva, perché senza contestualizzazione nascono fraintendimenti.
Prediligo autori ellenistici, preziosi, come Paolo Silenziario o Callimaco -che hanno una concezione della poesia diversissima da quella odierna- e in generale autori antichi, Omero, i tragici, Saffo, Archiloco, Teocrito etc. Ecco, per comprendere questi autori si può parlare di arte allusiva e non a caso apprezzo moltissimo Orazio. C’è una famosa boutade di Borges sulla rosa e il poeta, su come il primo che abbia paragonato una donna a una rosa fosse un genio, un secondo un copione e il terzo un poeta. In effetti, il poeta fa riferimento a un serbatoio culturale, a un repertorio, su cui costruisce la propria voce. Quando leggo che “un poeta ama una donna”, beh, ecco, ritengo limitante fermarsi al lato biografico, perché magari quella donna lì non esiste affatto ed è uno stock character. Ovvio, non dubito che John Keats, uomo, amasse Fanny Brawne, però trovo più interessante quello che Keats, poeta, voleva dire e come. Di fatto, per me è centrale il dialogo che i versi instaurano con i destinatari, con il repertorio di riferimento, e l’assenza di aspetti tecnici-formali mi impedisce di definire poesia ciò che ne è privo.
Detto questo, nella fruizione poetica privata, ossia quando leggo per piacere, il lato emotivo diventa importantissimo. In fondo i sentimenti sono universali e le sensazioni personali evocate da una poesia, anche se lontanissime dalle intenzioni dell’autore, rendono cara o meno una poesia. Inoltre, anche le emozioni costituiscono il repertorio che citavo poco fa. Prendiamo “Moriremo lontani” di Cristina Campo. In classe la spiego quasi in modo asettico ma i motivi per cui mi sia tanto cara sono personali e solo pochissime persone a me vicine li conoscono. Quindi, credo che una delle caratteristiche della grande poesia sia l’esprimere di una certa cultura, ma al tempo stesso essere universale e rivestire funzioni diverse per persone lontanissime tra di loro.

Muoviamo verso la fine del nostro dialogo. In primis, dunque, vorrei chiederti se avessi qualche autore da nominarci, tanto in prosa quanto in poesia, che secondo te non sta ottenendo lo spazio che merita, e che in futuro potrebbe avere un ruolo di primo piano; in secondo luogo, invece, mi piacerebbe se ci facessi entrare un po’ nel tuo cuore, segnalandoci tre titoli e tre autori che ti hanno segnata e, perché no, cambiata, magari accennandoci delle motivazioni.
Beh, forse sono di parte, ma gli altri amici che scrivono possono garantire che non mi sbilancio mai così tanto, c’è un romanzo pubblicato da Divergenze, Edipo a Berlino, è un capolavoro. Lo ha scritto Francesca Veltri, di cui ho parlato poco fa. Meriterebbe molta più circolazione.
Tra gli autori fondamentali citerò Aristofane e Luciano, i dialoghi dei morti, e Tucidide, che per primo mi ha fatto capire la natura umana, nella sua grettezza, esattamente come ha fatto il Satyricon, che mi ha anche spiegato, come Luciano e Aristofane, che nella vita si possa ridere – o almeno sorridere- anche nelle situazioni peggiori. Se invece devo aggiungere un romanzo moderno, beh, l’Opera al nero. Mi ha fatto capire molto di me stessa, ed era anche il romanzo preferito di Pierangiolo Berrettoni, il mio relatore di tesi, venuto a mancare ormai quattro anni fa. E della stessa autrice amo molto I doni di Alcippe.

Anche l’ultima domanda di questa chiacchierata (di cui ti ringrazio) non perde la caratteristica di averne più d’una al suo interno. Mi piacerebbe se ci dicessi, in prima battuta, qual è secondo te l’elemento più peculiare della poesia, che la rende distinta da tutte le altre forme di scrittura, e cosa invece renda la scrittura unica all’interno del mare magnum delle arti possibili. Infine, come ultimissima questione, credo sarebbe interessante per tutti se ci dicessi quale debba essere il percorso che unisca i due poli di cui sopra, cioè i giovani e la poesia. In poche parole: è giusto che siano i primi ad andare verso la seconda o invece è la seconda che deve sapersi adeguare ai giorni nostri? Oppure, ancora, è in punto medio che queste due polarità devono riuscire a convergere?
Per la prima domanda, il fatto che la poesia non sia scritta su una riga continua. Scherzo, in realtà la scrittura del verso su una riga è convenzione. In realtà credo che sia possibile tracciare una linea netta a seconda delle convenzioni che definiscono i vari generi di scrittura. Di certo, il rapporto con la musicalità e la musica è per me fondamentale, ma mi è spesso rinfacciato che io considero la musica pietra e paragone dell’esistenza umana. L’arte ha funzione eternatrice, Saffo scrive che alla sua casa non si addice il lutto perché conosce le Muse, e la scrittura ha questa funzione. Credo che la scrittura sia più introversa rispetto alle altre arti, meno legata al bisogno di essere esposta, anche se poi la maggior parte degli scrittori che conosco scrivono per essere letti.
Io credo che i giovani vadano educati al bello, alla cultura — e la poesia è sicuramente un fondamento della cultura occidentale —, anche per affinare le loro capacità espressive e di comprensione di testi complessi (e proprio la mancanza di comprensione di testi complessi è uno dei problemi più comuni oggi). Credo che giovani-poesia o più in generale società-poesia sia un rapporto in una dialettica continua, in cui i ragazzi possono essere influenzati dalla poesia, che va loro spiegata e proposta. Anzi, mi ripeterò, ma bisogna combattere verso la tendenza alla semplificazione, al solleticare a tutti i costi i sensi. Bisogna trovare una mediana, come in tutte le cose, perché sono consapevole che se entrassi in classe e iniziassi a leggere l’Eneide nella traduzione di Annibal Caro a una quarta ginnasio il lessico sarebbe troppo difficile, ma al termine di un percorso perché non farlo? E naturalmente questo può portare i ragazzi a trovare una loro voce, la voce a loro dovuta, per parafrasare Salinas.  

Federico

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