La forza del “c’era una volta”

Il racconto come arte

Potersi sdraiare a letto o nella vasca dopo una lunga giornata di lavoro, sedersi sulla poltrona della veranda mentre accarezziamo dolcemente il nostro cagnolino o il nostro gatto, non sono altro che la cornice della serata che preferiamo, che ci gratifica, restaurandoci dalle fatiche quotidiane.

Il sottile strato di polvere che nel tempo, con lo scorrere degli anni, ha avvolto le ormai plumbee copertine dei libri attira la nostra attenzione. Osservando più accuratamente si possono scorgere i titoli o gli autori. L’Odissea, per esempio. Ci siamo passati tutti. C’è chi l’ha dovuta studiare a memoria, e chi ha solo letto nelle antologie le epiche vicissitudini dell’eroe di Itaca. Sfogliando il libro, la nostra attenzione cade sul passo successivo al naufragio dell’ideatore del cavallo di Troia e del suo ritrovamento da parte della giovane Nausicaa, figlia di re Alcinoo dei Feaci. Non riusciamo a dire quanti sarebbero potuti essere i pop corn che si sarebbe mangiato mentre ascoltava le imprese dell’eroe acheo.

Le parole di Odisseo hanno echeggiato per tutto il corso della storia. La voce di quel povero esule naufrago, scampato per miracolo all’ira di Poseidone, avrebbe risuonato con voce tonitruante attraverso i secoli per mezzo di un poema sopravvissuto a tutte le calamità della storia per giungere sino nelle nostre librerie. Riappoggiamo il libro. Una sottile patina di sporcizia avvolge anche altri capolavori della letteratura e, colpiti da un improvviso senso di colpa, ci sentiamo in obbligo di restituire anche a essi una degna riesumazione. Così, rileggendo i titoli, notiamo quella raccolta di storie orientali con una trama un po’ inusuale, anch’esso risalente ai tempi degli incunaboli. Si tratta del celeberrimo Le mille e una notte. Fece senz’altro scalpore la storia di una principessa persiana, Shahrazād, che per acquietare l’ira del marito, causata dal tradimento della prima moglie e dopo la quale avrebbe eliminato ogni altra sua sposa, gli avrebbe narrato ogni notte una storia diversa. In questo modo sarebbe riuscita a procrastinare la sua ultima ora per più di mille notti.

Che storia! Ricorda quasi Penelope che, nell’attesa del ritorno del marito disperso nel Mediterraneo, ogni notte disfava la tela che intesseva durante il giorno. Questo perché si era promessa in sposa ai Proci nel momento in cui avrebbe ultimato il proprio lavoro.
Riappoggiamo anche questo libro al suo posto.
È tardi, dovremmo andare a dormire per riacquisire le forze necessarie per la giornata successiva, ma non riusciamo a distogliere lo sguardo da quello scaffale quasi dimenticato cui, questa sera, siamo finalmente riusciti a restituire le giuste attenzioni.
La mensola più in alto attira la nostra attenzione.
Ci sono due libri, caduti l’uno sull’altro, che rovinano l’armoniosità tipica delle scaffalature delle biblioteche. Sono altre raccolte di racconti: Il Decameron di Boccaccio e i Canterbury Tales di  Geoffrey Chaucer.

Riaffiorano i ricordi e le emozioni dell’università. Ricordi che seppur appannati e offuscati dalla coltre del tempo, vengono inondati da un fascio di luce che trafigge quelle nubi e rischiarisce ciò che ci era appartenuto un tempo.
Come avevamo potuto abbandonare a loro stesse l’opera capostipite della letteratura, nonché della lingua volgare italiana e quella meravigliosa raccolta inglese di racconti ricca di temi cari ai contemporanei come l’amor cortese o il tradimento?
Il senso di colpa per l’assenza di lettura dell’ultimo periodo si è amalgamato ormai quasi definitivamente alla sensazione di piacere che ci pervade, mentre ricollochiamo al loro posto questi capolavori e ricordiamo i momenti vissuti con essi. Contemplando per l’ultima volta la nostra collezione personale prima di recarci in camera e infilarci nell’alcova, notiamo che un libro di racconti è posto nella sezione più prettamente storica. È il Diario di Anna Frank.
Quante lacrime, quante emozioni, quanta sofferenza negli occhi di una giovane ragazzina. Pensate: l’opera più significativa al mondo sulla Seconda Guerra Mondiale è un semplice diario di una ragazzina; un diario dove raccoglieva i propri pensieri, le sue impressioni, e ciò le aberrazioni che vide, e visse. Essendo il diario più famoso della storia si potrebbe classificare come una serie di racconti; non si può negare, invece, che si tratti a tutti gli effetti di una testimonianza storica diretta.

È arrivata l’ora di andare a dormire. Ci sdraiamo sotto le coperte; gli occhi, finalmente, si chiudono.
Ci scorrono davanti le immagini delle pagine appena lette. Ci ricordiamo di quegli stessi racconti che ci avevano appassionato anni prima, che talvolta ci avevano fatto annoiare in qualche situazione, e che – più spesso – ci hanno procurato quella sensazione inebriante e soddisfatta di aver concluso un romanzo che ci ha saputo tenere sulle spine e con il fiato sospeso fino alla fine.

Il bisogno di raccontare forse non è così “artificiale” come si potrebbe credere. Forse, l’innato bisogno di accompagnare la nostra vita con l’arte è una necessità trascendentale delle persone, che si è manifestata nella storia in forme molto diverse l’une dalle altre.
C’è chi ha sostenuto che il proprio bisogno artistico derivi da un’assenza di un qualcosa che ci impedisce di accontentarci della vita, del mondo e della natura così come sono, e che vuole qualcosa di più.
Come siamo arrivati al classico “c’era una volta” tipico della narrazione fiabesca? Perché è sempre esistita quest’esigenza metanarrativa di esprimere sé stessi attraverso la voce di un personaggio? Oppure, semplicemente, perché sin da quando veniamo al mondo sentiamo un forte impulso che ci convoglia inconsapevolmente verso i racconti?

Forse perché ci permettono di calarci in avventure che altrimenti non potremo mai vivere, forse solo per un puro bisogno di consolazione; discorso che può inserirsi bene nella Francia della fine del ‘700 dove il cosiddetto Terzo Stato trovava giovamento e conforto attraverso opere che, dopo secoli in cui erano state riservate esclusivamente ai ricchi, permettevano loro di distrarsi dalla quotidianità opprimente alla quale erano abituati. Forse il racconto è arte perché soddisfa delle pulsioni che l’uomo possiede intrinsecamente ma che  magari non può soddisfare nella propria esistenza.
Perché, sin da quando apriamo gli occhi per la prima volta, ci sentiamo rassicurati da queste storie che per diletto, per interesse o per cultura ci accompagnano per il resto della nostra vita.
Perché ci permette di uscire dal guscio della realtà entrando nel mondo onirico della letteratura, della narrativa, del “c’era una volta”.

Dario Bartolucci Lupi

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