Rimanere fuori

English version here

Spesso ritorno alle porte di quello che un tempo chiamavo quartiere, per vedere la mia prigione di un tempo e ricordarmi di ciò che ho evitato.

C’è sempre qualcuno con me. Parliamo delle nostre vite al di fuori, ma parliamo anche di ciò che ci siamo lasciati indietro.

— Vi chiedete mai che sarebbe successo se aveste deciso di restare?

— Solo continuamente. Ogni mattina, ogni ora.

— Già, è un inferno. Una nebbia fatta di se, di forse, di potrebbe. A volte la foschia è tale che non riesco a vedere altro. Mi sveglio la mattina, guardo il vento e il sole e mi mancano l’aria stagnante e i pavimenti di ferro. 

— Per me più che una nebbia è un ronzio. A volte posso annegarlo nella musica, nel rumore, ma non appena mi fermo ritorna alla ribalta. 

— Il ronzio delle luci al neon 24 ore al giorno. Per me è l’insonnia. Non riesco più a dormire con il buio. Non ci sono abituato. 

— Secondo voi, ce ne libereremo mai?

— Non penso proprio, no.

— Nah, non direi.

— Improbabile.

— Alle volte mi capita di pensare: che senso aveva passare da questa parte se mi devo trascinare dietro il resto? Non me ne sono andata, mi sono solo sdoppiata.

— Ah, sono d’accordo. Posso essere sincero con voi?

— Certo che puoi.

— Siamo qui per ascoltare.

— Se avessi saputo cosa mi attendeva da questa parte, sarei rimasto dov’ero.

— Meno libertà, certo. Ma almeno sapevo cosa farmene. Ora c’è libertà, solo libertà, dovunque libertà. Mi sento soffocare. 

Se ne pentono in molti. All’inizio pensavo che bastasse trovarsi fuori e qualunque problema si sarebbe sciolto come neve al sole, dissolto dalla brezza e dall’odore delle rose sotto il sole d’agosto. Ho dovuto ricredermi in fretta. Transitare pesa più di quanto non credessi.

— Ma voi come avete deciso di andarvene?

— Non ne ho idea. Ho sentito la brezza dall’altra parte. E in un secondo, senza che potessi rendermene conto, avevo varcato la soglia, ero fuori.

— Io ero convinto. Sono un caso raro, eh. Convinto dal primo giorno. Ero uno di quelli nuovi che infastidisce i veterani con il suo senso di sicurezza. Quando è arrivata la porta non ho esitato, neanche per un secondo.

— E ora?

— E ora mi chiedo se tutta quella determinazione non fosse altro che insensatezza. Incapacità di vedere il presente, incapacità di accettare quello che avevo di fronte.

— Io invece tergiversavo. Ho tergiversato per mesi di fronte alla mia porta. Poi ho fatto una scommessa con un amico: se tirando tre dadi avessi ottenuto il numero 18, me ne sarei andata, se no avrei smesso di tergiversare e sarei rimasta lì per sempre.

— Ed è uscito il 18?

— No. A dire la verità, non lo so cosa sia uscito, perché nel momento in cui i dadi erano in aria, ho compreso il peso di quanto stavo scegliendo. Ho aperto la porta prima di sapere l’esito della mia scommessa.

— Volete sapere come sono uscita io?

Eccolo, la donna che dormiva sul pavimento della sua camera. Me la sono ritrovata di fronte poche settimane dopo essermene andata. Tutti conoscono la sua storia, se la sono ripetuti migliaia di volte sia quand’erano dentro sia da quando sono fuori, eppure tutti la ascoltano una volta di più, un memorandum a cui anelano.

— Ormai conoscete la solfa, no? La mia prima porta si era chiusa mentre stavo per attraversarla, la seconda porta si era chiusa senza che non avessi neanche tentato. E stavo lì, aspettando il terzo miracolo, lo aspettavo per ignorarlo, per dimenticarlo, volevo l’altrove per sentirmi inadeguata, volevo la luce per scegliere il mio buio. Perchè m’ero scelta un destino, e quel destino era l’attesa. Conoscete la sensazione, no?

— Scegliersi un destino, già. E quel destino è l’attesa. O il rimpianto.

— Il pentimento perenne. 

— La nebbia.

— Il ronzio.

— Le luci al neon che splendono anche nel buio.

— Oppure la brezza.

— Già, oppure la brezza. Ma non ha senso interrogarsi sulle ragione: simili domande non sono che un chiodo per legarci a ciò che siamo stati. 

— Ravvivare una ferita perchè non guarisca mai, una ferita senza cui non sapremmo chi essere.

— Sapete che sono stata malata, non appena tornata? E ricordo che nei giorni della nausea, costretta a letto, non volevo altro che finisse. Quando è finita, mi è venuta nostalgia del mio male. Aveva scandito le mie giornate e dato forma ai miei desideri, riempito il mio respiro e illuminato le mi speranze. Chiaro che mi mancasse. 

— Avevi un vuoto da riempire.

— Abbiamo tutti un vuoto da riempire.

— Ci vuole tempo.

— Ci vuole ma non basta. Guardatevi intorno. Tirate dei dadi. Lo so, il cielo senza cupola è così vasto da abbacinare. Verrebbe la tentazione di renderlo affollato, ma no, che errore sarebbe.

— Forse noi uomini siamo il nostro vuoto.

— Forse siamo la nostra incompletezza.

— Forse l’altrove non serve a completare, ma a dare uno spazio per abbozzare una danza.

La donna della terza porta. La persona dei dadi. L’uomo della nebbia. Non li conosco per nome, eppure li conosco. Incontri del genere sono rituali: ricordarci a vicenda cosa abbiamo passato, ricordarci che non siamo soli in questo disordine. La porta l’abbiamo dovuta varcare da soli. Ma per rimanere fuori, ci servono gli altri.

Francesca P.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...