Questo mese è accaduta una cosa strana. Mi rendo conto che la definizione non è forse delle migliori, ma come altro si potrebbe indicare il finire una trilogia iniziata a leggere circa tredici anni fa?
Alla tenera età di otto anni, infatti, ho scoperto Salgari. Dall’edizione illustrata della Mursia di Le tigri di Mompracem, passando attraverso tutti i volumi della Fabbri e alcune ristampe di pregio del Ciclo dei Caraibi, e per finire con dei libricini di quasi un secolo contenenti dei singoli racconti, mi verrebbe da dire che questo autore mi ha accompagnata per tutta la mia vita di lettrice; è sempre stato lì, a guardarmi e a ricordarmi quanto Sandokan sia un simbolo di libertà e coraggio, e i suoi romanzi hanno ancora un posto di rilievo nella mia libreria.
Era però un uomo strano, Salgari. Amava il mare, ma non riusciva a mettere piede su una nave senza avere la sensazione di essere finito all’inferno. Amava i luoghi più lontani, esotici e pieni di una vita a lui sconosciuta, ma non poteva viaggiare e fu costretto a vivere alla periferia di Torino. Amava scrivere e creare mondi, ma era troppo ingenuo per sopravvivere alle pressioni e il salario da fame che gli era dato. Infatti si è sventrato.
La sua è una storia triste, così come lo è quella della sua famiglia, ma nei romanzi da lui prodotti non ho mai avvertito il profondo dolore che doveva averlo colto, bensì solo un grandissimo amore per il raccontare. Mi è semplice immaginare che per lui la narrativa e la scrittura fossero comunque un balsamo, un modo per sfuggire alla crudele realtà in cui era intrappolato, e penso che ciò sia fluito anche dentro di me, fin da quando ero bambina. Mi ricordo di certi lunghi pomeriggi estivi, trascorsi fingendo di essere in India, vicino a Sandokan, una rediviva Marianna, Yanez e Surama, la coraggiosa bajadera di cui si innamorerà il portoghese; talvolta c’era anche Tremal-Naik, per quanto non mi sia mai stato molto simpatico – e, infatti, I misteri della jungla nera è il romanzo su cui mi sono incartata quando ho voluto provare a rileggere in ordine tutto il Ciclo dei Pirati della Malesia.
Certe sensazioni mi hanno seguita anche da ragazzina, quando mi sono spostata al Ciclo del Far West e sono incappata nel personaggio di Minnehaha, uno dei migliori antagonisti mai creati e figura femminile di spicco tra i romanzi di Salgari – sì, anche più di Jolanda, che finisce per essere catturata dalle spire dell’amore e sparire dagli ultimi libri del Ciclo dei Caraibi.
È stata proprio Minnehaha colei a cui sono tornata, dopo essere riuscita finalmente ad avere tra le mani Le Selve Ardenti, ovvero la conclusione della sua storia che non avevo mai comprato via internet, troppo convinta dell’idea nostalgica che avrei dovuto prenderlo mettendoci la faccia. È uno degli ultimi romanzi scritti da Salgari, pubblicato per la prima volta un anno prima del suicidio, ma l’amore è sempre preponderante: le lunghe descrizioni, le fughe, i combattimenti, gli assedi più impensabili… trasuda ovunque, anche nel finale (purtroppo) scontato.
Da lettrice, questo amore è qualcosa che cerco sempre.
Esistono autori che si compiacciono di loro stessi e scrivono tanto per farlo, più alla ricerca del successo che per esprimere qualcosa che brulica sottopelle e tenta sempre di prendere il sopravvento, e ciò che producono è spesso freddo e impersonale, incapace di attrarmi. Le loro storie non hanno il sapore delle fiabe raccontate sottovoce prima di andare a dormire, o della birra bevuta mentre si narra a spizzichi e bocconi qualche avvenimento saliente della settimana, ma solo la meccanicità di chi è costretto a ripete ancora una volta qualcosa imparato a memoria.
Non voglio dire che l’amore sia ciò che muove il sole e le altre stelle, sia perché l’espressione dantesca non ha il significato che le è di solito attribuito, sia perché non sono neppure così nostalgica e sognatrice, però è di certo qualcosa che dà. E la scrittura, in fondo, non è proprio dare?
Quindi torno a Salgari, al piccolo uomo di Verona che aveva così tanto da dire e da lasciare agli altri da non fermarsi mai davanti alle critiche, agli insuccessi o alle vessazioni delle case editrici. Voleva regalare i suoi sogni e ricordare che da qualche parte, nascosto nelle pieghe della coscienza di ciascuno di noi, c’è un mondo meraviglioso, ricco di avventure e misteri in cui è giusto immergersi di tanto in tanto e a cui chiunque può attingere a piene mani, per donare a sua volta qualcosa di nuovo.
Narrare, in fondo, è il gesto più generoso del mondo.
Rebecca Bonini