Il 27 luglio ho potuto avere la fortuna di sedermi su degli spalti che esistono ormai da più di duemila anni e che da più di duemila anni sono utilizzati da persone come me, giunte lì per lo stesso motivo per cui sono giunta anche io questa domenica sera.
Ritengo che la location da cui si assiste a uno spettacolo teatrale sia tutt’altro che secondaria e anzi entra a far parte della performance (e della riuscita di tale performance) in maniera invasiva. La si può usare bene o la si può usare male, ma in ogni caso non passa inosservata.
Il fatto che io, quel 27 di luglio, abbia visto i Cavalieri di Aristofane al Teatro Antico di Epidauro ha cambiato completamente l’esperienza vissuta.
In generale, penso che portare in scena un dramma antico in luoghi che gli sono così familiari sia sempre una mossa azzeccata e una scelta che riesca davvero ad avvicinare persino gli spettatori moderni a quella che doveva essere l’esperienza primordiale di uno spettacolo fatto esattamente su misura per quel luogo preciso.
Sfruttare la struttura e riportare nella recitazione odierna quella che doveva essere la recitazione antica, soprattutto dal punto di vista dell’uso dello spazio, non è un compito facile, ma quando lo si fa in un teatro antico è sicuramente più intuitiva.
Il coro di Cavalieri si è dimostrato a dir poco sublime, facendo (a mio parere) cadere nell’ombra più totale i due protagonisti. I cavalieri cantavano e ballavano, canti e coreografie sensazionali. La voce era la loro e mai mi sono sentita tanto coinvolta dalla potenza e dal ritmo incessante di un coro. Anche in questo caso, gli attori di Epidauro hanno riproposto con grande abilità quella che era il tradizionale ruolo del coro. È lui il protagonista ed è in lui che si devono cercare le parole che nascondono il messaggio dell’autore e dell’opera stessa. Questo coro è arrivato dritto dove doveva, ipnotizzando il suo pubblico e riportandone le idee.
Il cambio di luci effettuato nel corso dello spettacolo, sfruttando prima la luce del crepuscolo e del tramonto e poi l’oscurità della notte, ha sicuramente dato un colpo emotivo forte, soprattutto in conclusione dello spettacolo quando, mentre il pubblico aspettava la scena finale, le luci si sono spente, lasciando soltanto la luna con le stelle. La loro luce è sufficiente, visto che il teatro è in campagna, lontano dalla città.
Improvvisamente la voce perfetta dell’attore protagonista conclude il tutto con una chiusa che rimarrà incisa nel mio cuore per sempre: “Su di noi stanotte splende la stessa luna che splendeva nel 426 a.C., quando Aristofane portava in scena questo spettacolo per la prima volta”.
Per un amante dell’antichità e del teatro, parole simili pronunciate in un contesto simile, sono davvero nutrimento per l’anima. E’ la riflessione finale che dà senso allo spettacolo intero. La stessa luna e le stesse stelle, nulla è cambiato in cielo così come in terra. La Commedia dei Cavalieri parla agli uomini il 27 luglio 2021 come parlava agli uomini il 426 a.C. e sono i momenti come questi che mi confermano la ragione per cui l’antichità è ancora viva. Culture concluse, lontane, passate, ma in realtà mai così reali. È tutto qui, davanti a noi, ritorna eternamente. Forse in forme diverse, con nomi diversi, ma il ciclo continua e noi ne facciamo parte. Sono i momenti come questi che mi fanno sentire a contatto con una linea temporale che in realtà è un flusso mescolato, dove tutto è oggi come ieri.
Questa è la giusta rivisitazione dell’antico: non lasciare che il suo significato si perda, riproducendo tradizioni e costumi, ma renderlo eternamente presente e fruibile.
Laura