L’intervista a Marco Cavallero

Parlo con Marco Cavallero, autore sul podio del Concorso Poetico di Bottega di idee. Vorrei cominciare chiedendole qual è stato il suo percorso di poeta. Come si è avvicinato alla poesia, cosa l’ha affascinato?
Le mie primissime esperienze poetiche risalgono all’infanzia, alla pubertà e poi naturalmente all’adolescenza, durante le scuole superiori. Devo dire che c’è stato un momento di culmine, di frattura nel 1984. Scrissi  in quel periodo una  poesia che si chiamava “estasi pomeridiana”, non inclusa nella silloge inviata al vostro concorso poetico. E da lì è stato invece, in qualche modo, il silenzio. Un silenzio vero e finto perché quello che può essere un discorso poetico non necessariamente è un discorso scritto. Ho ripreso l’anno scorso, complice forse il lockdown, o un esacerbarsi della solitudine. Ho così ricominciato a scrivere componimenti poetici  e a pubblicarli in un gruppo di Facebook. Approfitto di quella piccola finestra per inserire una poesia il giovedì e cerco di non mancare mai. Se invece parliamo di un’altra modalità di fruizione della poesia, essa comincia con l’infanzia, e il suo mondo di fiabe e filastrocche. In età pubere  ho avuto due incontri illuminanti, uno è stato Guido Gozzano. Mi feci comprare da mia madre un volumetto che includeva quasi l’opera omnia di Gozzano. 
Quella è stata una lettura bellissima, di affascinante nostalgia. 
L’altro versante è il melodramma. L’opera lirica è un’opera in versi, prima di essere messa in musica.  Sicuramente non sono fra i più belli della storia della letteratura, ma sono pur sempre versi, e per altro in un italiano molto particolare, pensiamo a Mestastasio, all’opera del Settecento. E comunque anche nell’opera dell’Ottocento i libretti di Felice Romani sono scritti in un italiano molto lontano dal contemporaneo,, non solo perché è lingua poetica ma perché è lingua di quasi due secoli fa. Quell’incontro così importante nella mia formazione avvenne a nove anni, quando una  zia portò me e mio fratello a vedere la Bohéme, al Teatro Nuovo, perché il Teatro Regio di Torino ancora non era stato inaugurato, e fu non proprio amore a prima vista, ma quasi, per il mondo dell’opera e per anche quella particolare poetica che è il melodramma. I miei esordi sono questi.

Parlando della sua poesia spedita per il Concorso Poetico, io ne ho molto amato il miscuglio di dolcezza e malinconia. Mi ha catturato in particolare il verso “Sciogli l’anima in un aria”. La poesia come modo di approcciarsi alla vita?
Quella poesia nasce da una riflessione sul canto che è una riflessione molto particolare perché il canto, non solo quello operistico, è l’insieme di una serie estremamente complessa di cose: è il respiro, è l’appoggio, è la sintonia tra questi elementi e poi l’intonazione di una qualche musica. E quindi quella poesia è nata da una riflessione su questi elementi particolarissimi della voce umana. 
C’è chiaramente un parallelo, una metafora tra costruire un’esistenza, dirla in un verso o più versi e cantarla. Perché tutto questo è assolutamente naturale, ma necessita di un’impostazione. La voce non c’è stata data per cantare. Il meccanismo del canto non è mai un meccanismo naturale, eppure noi non possiamo non passare da quella strada. Perchè viviamo un’esistenza che non ci siamo scelti di vivere, ma nello stesso tempo possiamo o cerchiamo per quanto possibile di costruirla, quest’esistenza, che tuttavia ci rattrista per la sua brevità.

La poesia quindi anche come modo per anelare a qualcos’altro, a qualcosa di più.
In questo momento mi viene in mente Pavel Florenski: “l’icona evoca e invoca”. Apre una finestra sul divino e allo stesso tempo lo invoca, quel divino. La poesia è qualcosa di non tanto diverso, cioè apre una finestra su una realtà altra e invoca quella realtà che è esistente solo nella poesia. Altrimenti sarebbe un’alienazione. Gli alienati credono nella loro realtà alienata, ma è patologia. Noi crediamo in una realtà in cui viviamo, ma in questa realtà esiste comunque un parallelo, quello della poesia, che noi crediamo, ma allo stesso tempo, per parafrasare Pavel Florenski, invochiamo. 

Una domanda semplice: la poesia per lei è un modo per cercare una catarsi o per creare dei problemi?
Creare dei problemi, no. Perché bisogna creare dei problemi? La poesia di sicuro i problemi non li risolve e se non li risolve non può essere neanche troppo catartica. Mi ricordo di una mia insegnante di storia della musica che spiegava la catarsi così: “detesto mia suocera, vado a teatro, vedo ammazzare la suocera e mi libero dei cattivi pensieri nei confronti della mia”. 
Perché la poesia dovrebbe essere questo, perché dovrebbe essere così consolatoria? Non è mai consolatoria, nemmeno quella dell’opera lirica, che è pur sempre una poesia molto minore. A meno che tu non prenda autori molto ingenui. Quindi io non credo che la poesia possa essere catartica in questo senso. Che la poesia crei dei problemi, no. La poesia semmai manifesta dei problemi, oppure può in qualche modo cercare di nasconderli, ma per pietà, per pudore. 

Un altro punto che vorrei discutere è il rapporto tra la poesia e altre forme artistiche. Perché la poesia è un ibrido sotto certi punti di vista, può avvicinarsi e mescolarsi alla prosa eppure ha anche radici in comune con il canto e con la musica. Quindi mescola questa sua vicinanza con forme più solitarie e forme più comunitarie.
Il connubio con la musica è particolarmente interessante: io faccio sempre riferimento alla nostra cultura occidentale, perché purtroppo conosco poco quelle orientali. 
Musica e poesia nascono già nel medioevo con i Trobadour, con questi cantori di musica profana che accompagnavano i loro componimenti poetici anche con la musica. Poi si sviluppa quella forma particolarissima d’arte teatrale che è il melodramma. Il melodramma nasce con l’intenzione velleitaria di far resuscitare l’antica tragedia greca, in realtà dà vita a una forma artistica completamente nuova, dove il testo poetico che viene intonato dai cantanti si accompagna della musica strumentale. Però poi alla fine del Settecento, primi anni dell’Ottocento si forma soprattutto in Germania una forma ancora più particolare di connubio tra poesie e musica, la musica liederistica.  Cioè le poesie di grandi poeti, come Goethe, Schiller, Novalis, il “Corno Magico del Fanciullo”, tutta una serie di composizioni poetiche considerate a torto o a ragione di altissimo valore artistico venivano messe in musica da grandissimi compositori. Primo fra tutti è Schubert. Schubert ci ha lasciato un corpus di musica liederistica che è enorme. La cosa particolare è che molti di questi Lieder non sono canzoni strofiche, sono durchkomponiert, cioè composti da cima a fondo. 
Nel senso che nell’accompagnamento musicale (che ovviamente è al pianoforte, lo strumento principe del mondo borghese), il connubio tra la voce e lo strumento fa sì che lo strumento non abbia funzione di mero accompagnamento ma dialoghi musicalmente con quella poesia. 

Grazie mille per il suggerimento, non ero familiare con questo genere.
Adesso dico una cosa forse un po’ cattiva, e cioè  che in Italia la musica si studia veramente poco. In altri paesi d’Europa questo non è assolutamente vero, viene studiata tantissimo. C’è un libro bellissimo di un autore assai singolare e oggi purtroppo quasi dimenticato, Bruno Barilli, che si intitola proprio “Il paese del melodramma”; noi siamo il paese del melodramma che ha dimenticato il melodramma. E insieme al melodramma ha dimenticato tutta la musica strumentale.

Un paradosso, il segno di un’incuria. L’Italia è un paese che da un lato vanta un’arte stupenda e dall’altro, forse per sovrabbondanza, non sa occuparsene come dovrebbe.
Assolutamente. Diceva mi sembra Argan che l’Italia non fa niente per i suoi monumenti artistici e per giunta li fa anche lavorare per vivere. Lo diceva per le stagioni alle Terme di Caracalla. A Roma alle Terme di Caracalla si facevano una volta delle stagioni operistiche che mettevano a repentaglio anche l’integrità, l’incolumità o comunque la salvaguardia di quel monumento. 
Perché appunto era un posto dove si potevano fare stagioni a buon mercato e si raccoglieva un sacco di gente. Insomma, il classico successo di cassetta. Oggi si può ancora rappresentare a Caracalla ma bisogna sottostare a protocolli molto rigidi, ovviamente. 

Tornando alla poesia. Attualmente spesso la poesia viene percepita come qualcosa di antico, quasi oggetto di antiquariato. Il suo esigere pazienza e molta riflessione pare spesso agli antipodi della frenesia vuota che abita spesso contemporaneità. Come provare a spezzare questo pregiudizio? Come fare poesia ricordando al lettore che è ancora un genere moderno?
Questa in realtà è una domanda estremamente difficile, ma non tanto per il concetto di modernità, al quale io sono profondamente contrario. Nel senso che io non credo nella modernità. Credo nella condivisione, nel senso che stiamo parlando una lingua, quella italiana, e la stiamo parlando secondo l’uso che ne abbiamo in questo nostro preciso momento storico. 
Invece la lingua italiana ha avuto sette-ottocento anni di storia dove si è evoluta e cambiata. Quindi è chiaro che se io vado a prendere Dante ho bisogno del traduttore, perché quell’italiano non ci corrisponde più. Ma se imparo a leggere Dante, dove per leggere si intende studiarne il pensiero, studiarne il meccanismo poetico, Dante può essere estremamente moderno perchè dice cose universali. Quella è la modernità non tanto solo della poesia ma di ogni forma d’arte, è l’universalità. Cioè parla (quando va bene, quando è una buona poesia) di concetti che possono attraversare la storia senza subirne il danno. Mi spiace dover riprendere i paralleli con il melodramma: ci sono a volte opere liriche basati su testi che sopravvivono solo nella musica, perché il testo è legato a un periodo storico, a una visione del mondo storica ormai sorpassata. Non ci coinvolge più come avrebbe coinvolto i contemporanei di quel testo stesso. Credo che una poesia possa essere moderna solo se riesce a sintonizzarsi su questa universalità. 

Poi non bisogna neanche fare l’errore di confondere ciò che è recente, che è nuovo, con ciò che è veramente rilevante, ciò che veramente, come ha detto lei, riesce ad essere universale. Un errore facile da commettere.
Viviamo in una società che vuole ad ogni costo la novità, vuole l’evento che stupisce. Ma questo non può essere. Prima di tutto perché sono cose che non sono programmabili, nel senso tecnico-meccanico del termine, e forse non sono nemmeno auspicabili. Per quel che riguarda poi la novità, la novità è una delle forme con cui si esprime la moda, ma cosa c’entra la moda con l’arte?

Francesca P.

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