Se qualcuno mi chiedesse qual è il miglior romanzo con cui approcciarsi a Stephen King, direi Stagioni diverse.
Mi rendo conto che sarebbe un consiglio abbastanza particolare, sia perché non è a tutti gli effetti un romanzo, bensì una raccolta di racconti, sia per il fatto che non ricade tra i grandi titoli che di solito sono associati al Re dell’orrore. Tuttavia, nel quartetto che definisce la struttura di Stagioni diverse c’è quello che a mio gusto considero essere uno dei lavori meglio riusciti di King, ovvero Il corpo, noto ai più come Stand by Me grazie al film del 1986. E, giusto per completare la triade delle stranezze, non è horror.
Questo è stato uno dei rari casi in cui ho visto prima la pellicola e, solo in un momento successivo, mi sono avvicinata allo scritto. La colpa – o il merito? – ricade sulla professoressa di italiano delle medie, che durante il secondo anno decise di definire una sorta di percorso di critica cinematografica dove il cardine era costituito da storie di adolescenti problematici. Posso dire a posteriori che il tentativo di dare un senso a una classe ricca di elementi che ricadevano a piè pari in tale categoria è di certo fallito, soprattutto a causa della scelta di farci visionare film indipendenti francesi lunghissimi e lentissimi, ma a un certo punto, forse spinta dalla disperazione, ha tentato la via del mainstream con – appunto – Stand by Me. Non ricordo che la pellicola avesse catturato più di tanto l’attenzione dei miei compagni, esclusi alcuni momenti eclatanti, ma di certo ha avuto la mia, tanto che mi è rimasta impressa per anni e mi ha spinta, dopo aver scoperto quanto sia interessante King da leggersi, ad andare alla fonte.
Le cose più importanti sono le più difficili da dire. Parte così la storia di quattro ragazzini che, un caldo giorno di fine estate del 1960, decidono di andare a cercare il corpo di un loro coetaneo sparito da giorni – Ray Brower. Hanno scoperto dove si trova grazie a una coincidenza fortuita e non vedono l’ora di prendersi la gloria di essere coloro che l’hanno trovato; poco importa che si tratti di qualcuno di morto, lo percepiscono ancora come un concetto astratto nonostante tutti abbiano già subito dei lutti e assaggiato le difficoltà della vita: Gordie, infatti, ha perso da poco il fratello ed è ignorato dai genitori in tutto ciò che fa, mentre i tre amici – Chris, Teddy e Vern – vengono da famiglie difficili dove la violenza è di casa.
Il racconto, narrato da Gordie a distanza di anni, si dipana attorno al piccolo viaggio dei protagonisti lungo le rotaie del treno, alternato a un paio di storie scritte dal Gordie adolescente e al punto di vista della banda di Ace Merill, anch’esso deciso a denunciare la posizione del corpo per guadagnare una ricompensa. Questo rende il ritmo un avvicendarsi tra momenti veloci e di grande impatto, come la corsa sul ponte della ferrovia o quando i due gruppi collidono, ad altri più pacati e dedicati allo studio dei personaggi, vedasi la serata trascorsa attorno al fuoco a chiacchierare o la comparsa della daina; tale costruzione rende semplice affezionarsi a loro, cosa che dà una forza ancora maggiore al finale.
Infatti, come spesso accade nei romanzi di King, ciò che muove davvero la storia non è la trama in sé, che segue dei binari abbastanza lineari e porta a una conclusione nel complesso prevedibile, ma i personaggi e i rapporti costruiti tra loro: l’amicizia che li lega è naturale, facile da riconoscere come vera, e il legame tra Gordie e Chris è così intenso da rendere struggenti le loro interazioni conclusive. Gli ultimi capitoli, infatti, sono dedicati allo sfaldarsi del legame tra i quattro dopo l’avvenimento e al rivelarsi della predizione delle tre croci, una testa, e la loro rapidità li rende ancora più inclementi di quanto avrebbero già potuto essere.
Per quanto la pellicola mi avesse nel complesso commossa – e lo faccia ancora oggi quanto la rivedo –, il racconto mi ha devastata. Arrivata a circa venti pagine dalla fine ho iniziato a piangere per non smettere, perché nella sua crudezza e semplicità più estrema parla di qualcosa che tutti hanno vissuto e vivranno: il crescere e quello che comporta. Mi rendo conto che è un tema che è stato trattato in centinaia di romanzi, alcuni dei quali di King stesso – ci credereste mai che uno dei pilastri centrali di IT è ancora questo? –, ma mostra così bene quello che è l’appassire del candore e dell’incredulità a favore di un crudele realismo da risultare ancora attuale, tanto che è difficile non rimanerne colpiti. In fondo, il racconto è introdotto nella raccolta proprio come L’autunno dell’innocenza.
Significativa in quest’ottica è la conclusione, durante la quale Gordie, ormai adulto e che ha coronato il suo sogno di diventare scrittore, decide che l’unico modo per mettere un punto a ciò che era accaduto quand’era tredicenne è tornare a Castle Rock e vederla un’ultima volta.
La città è cambiata, gli abitanti un po’ meno, e c’è ancora il fiume sul quale era stato costruito quel maledetto tratto di ferrovia; quella è sparita, ma l’acqua continua a scorrere. E anche lui.
Rebecca Bonini