L’intervista a Simone Consorti

Caro Simone, prima di farti dire chi sei e cosa fai, vorrei far presente al pubblico com’è andato il primo contatto fra noi. Posso dire con un pizzico di orgoglio infatti che, diversamente dal solito, non sono stato io a contattare te ma tu a scrivere al blog. Puoi dire ai nostri lettori come mai?
Quando trovo un’intervista che mi arricchisce, attribuisco almeno la metà del merito a chi pone le domande. Marshall McLuhan sosteneva che l’intelligenza andasse misurata non tanto dalle risposte che si danno quanto dalle domande che si fanno. In ogni caso, qualche settimana fa mi sono imbattuto in una vostra bella intervista e, semplicemente, ho deciso di inviarvi il mio ultimo libro per vedere quali questioni vi avrebbe stimolato e quali risposte sarei stato in grado di darvi.

La seconda domanda è ovviamente d’obbligo: chi è Simone Consorti, cosa fa, da quanto e attraverso quali tappe?
Parlare di sé, magari al passato, è strano. Sa di conclusione provvisoria. Ve lo dice uno che sta prendendo appunti per un libro che s’intitolerà C’era una volta Simone Consorti, che conto di far uscire il più tardi possibile. Posso dire qualcosa del mio presente. Del fatto che sono con la mia macchina fotografica  e col mio blocchetto su un treno diretto in Sicilia, nella speranza di allontanarmi da un po’ di problemi. Sono una persona solitaria, talvolta misantropa, che pero’ ama guardare gli altri, magari ascoltarli e poi raccontarli. In particolare i vecchi e i giovani. Coi coetanei ho qualche idiosincrasia in più. Forse per questo insegno. La classe è in assoluto l’ambiente dove sono più aperto e loquace. In mezzo agli alunni potrei addirittura essere scambiato per un affabulatore molto socievole da chi non mi conosce bene.

I due poli che emergono dalla tua narrazione sono senz’altro la scrittura, senza alcun limite di genere, e la fotografia. Che rapporti vedi tra le due? L’una arricchisce l’altra, o piuttosto la integra? E, ancora, lavorando con entrambe, non si rischia di nascondere la loro specificità, al posto di esaltarla?
Qualche anno fa pubblicai un ebook, intitolato Finestra d’Italia, uno squarcio sulla nostra quotidianità dove a ogni foto seguiva una poesia. In alcuni casi la lirica nasceva come una sorta di commento/didascalia, in altri avevo semplicemente accostato immagine e testo per analogia. Sta di fatto che, in quell’occasione, mi sono reso conto che avvicinare due linguaggi può essere un bell’esperimento, ma, allo stesso tempo, rischia di distrarre dall’essenza di ciascuna opera. Ogni vera foto, che non sia semplicemente immagine o cartolina, e’ anche racconto, così come ogni poesia autentica deve evocare in sè un’immagine. Di sicuro, da quando scatto, la mia letteratura si è fatta più asciutta, meno barocca. Il fuoco è molto più chiaro. 
Schiacciando qui si possono vedere le “finestre d’Italia” a cui accennavo sopra.

Sopra dicevo che scrivi senza alcun limite in quanto al genere: scrivi e hai scritto di prosa e poesia, hai composto una piece andata in scena al Teatro Agorà di Roma, e molto altro. Cosa congiunge e cosa differenzia la scrittura, in queste sue vatie forme? E, al di là della tipologia di scritto, quale credi essere la caratteristica che distingue la scrittura da tutte le altre forme d’arte?
Scrivere è parlare da soli e parlare a una folla, diceva, più o meno, Pavese, nel suo celebre diario, in una frase che ho più volte plagiato. Fotografare, d’altra parte, è mettersi una maschera davanti alla faccia, rendendosi invisibile agli altri. Sono due forme di comunicazione vagamente solipsistiche, dove vediamo senza essere visti.  Dopo che una mia foto diventò lo spunto prima per una poesia e poi per un romanzo breve, un mio amico mi disse che avevo la visione dell’arte come di un maiale: con me non si buttava niente. Ma io credo che sia inevitabile travalicare i limiti  imposti dai generi, per lo meno tutte le volte che un personaggio o un’idea ci ossessiona o non la sentiamo completamente risolta in un’opera.

Oltre a scrivere e fotografare, come ci raccontavi, insegni in un liceo di Roma. Che futuro vedi per la scuola italiana e in che modo credi si possa rilanciare sia l’insegnamento in quanto tale sia — cosa, questa, a cui tengo molto — la sua importanza in campo politico, etico e sociale?
Tranne rari casi in cui mi trovo in situazioni davvero terribili, stare in classe è il mio divertimento. A volte è un po’ come stare su un palcoscenico dove una ventina di spettatori, tendenzialmente curiosi e desiderosi di conoscerti, ti staranno ad ascoltare per anni. E in cinque anni, o anche solo uno o due ce ne  sono di cose da raccontare. A me per esempio piace parlare delle Olimpiadi, delle guerre, di certi autori del Novecento, di cinema, di viaggi e di psicologia, AI ragazzi invece piace quando racconto vicende personali più o meno infiocchettate. Così si arriva a un giusto mezzo. Alla fine dell’anno, quel che conta e’ principalmente che si sia stati bene e si sia fatto comunità. Paradossalmente, della scuola, il posto che amo di più, ne ho scritto in un romanzo, In fuga dalla scuola e verso il mondo, dove a parlare è un ragazzo che odia il suo professore di Italiano. Anziché un resoconto o un reportage ho scelto di scrivere un autodafé.

La penultima domanda risulterà forse ovvia, ma non riesco proprio a trattenerla: una panoramica sui tuoi lavori, di scrittura e fotografia. In primis ti chiederei dunque se ti va di mostrare qualche tua foto, indicandoci qualcuna che preferisci fra le altre e spiegandoci il perché; secondariamente che raccontassi, in breve, al nostro pubblico, quali siano le tematiche che più ti è capitato di trattare nei tuoi scritti.
Ecco quattro mie foto: una donna che compare da una pozzanghera, mentre sono nel quartiere ebraico di Cracovia; sembra uscire dal passato, è questione di un attimo, tra un secondo non ci sarà più. E però l’ho fermata. Un’istantanea può essere eterna. Nella seconda foto sto fotografando un murales dell’ Italia al Museo dell’altro e dell’altrove mentre, come un’apparizione, uno zingarello mi impalla l’inquadratura scappando da (o verso) qualcosa. Sta fuggendo dal nostro paese, nel nostro paese? Potrei far credere qualsiasi cosa, indirizzando la lettura, con il titolo giusto. Nella terza c’è la nebbia, che nasconde. La fotografia non solo rivela, ma anche cela. Tutto quello che è intorno non c’è più, tagliato fuori – la fotografia può anche essere una grande mistificazione e rimozione. Nella quarta, vediamo uno sconosciuto, una persona che ho visto coi miei occhi nella realtà; ma che è rimasto  senza volto nella foto. E ormai ho già dimenticato il suo volto.

L’ultimissima domanda muove da un pensiero non mio, ma di Francesco d’Assisi: “Chi lavora con le sue mani è un lavoratore. Chi lavora con la sua testa è un artigiano. Chi lavora con le sue mani e la sua testa e il suo cuore è un artista.” Cosa pensi di questa frase e cosa significa, per te, essere un artista?
Non mi piace molto la parola “artista”. Trovo anzi ironico e chiarificatore il titolo dell’album di De Gregori Per brevità chiamato artista.  D’altra parte, non mi piace nemmeno la parola “poeta”;  io vedo quel che faccio come una sorta di impulso naturale, cosi come lo descrive Pierangelo Bertoli nella sua canzone A muso duro. “Non so se sono stato mai poeta/ e non m’importa niente di saperlo/ riempirò i bicchieri del mio vino/non so come è però vi invito a berlo”. San Francesco o, meglio, Branduardi, nell’album che gli ha dedicato, ha parlato di Infinitamente piccolo.
In fondo è un atto infinitamente piccolo creare, anche se è necessario.
“Creato io creo/è la sola giustizia/il solo equilibrio”, scriveva Eluard.

Federico

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