Abbiamo visto tutti cosa è accaduto la scorsa settimana [articolo scritto nella settimana tra il 9 e il 15 agosto, N. d. R.] in Afghanistan. Abbiamo avuto, quindi, modo di assistere alla visione di video raccapriccianti che hanno fatto il giro del mondo in pochi minuti. Alcuni uomini disperati che, pur di provare a scappare dalla guerra che li attanaglia da 20 anni, si aggrappano ai carrelli di un aereo militare statunitense in fase di decollo, per cadere come foglie caduche dal Boeing C-17 dopo che questo si era issato in cielo. Una scelta sconsiderata e disperata che ha portato sugli schermi di tutto il mondo quelli che sono diventati i “falling man” di Kabul.
Una poesia di Ungaretti recitava: “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”. Venne scritta sull’altopiano roccioso del Carso durante gli scontri avvenuti nella prima Guerra Mondiale e, seppur sia stata scritta un secolo fa in un contesto probabilmente ancor più catastrofico, ritorna utile anche ora. Non solo perché quelle povere persone si potrebbe dire che siano cadute dall’aereo come le celeberrime foglie autunnali del Friuli di cui parlava il poeta, ma anche perché la vera metafora vettore che la poesia voleva trasmettere sussiste nel fatto che i soldati, in costante conflitto a fuoco, si sdraiavano nelle trincee per salvarsi, e ciò è paragonato alle foglie che cadono in autunno. Allo stesso modo in Afghanistan le persone cercano qualsiasi escamotage o sotterfugio pur di non fare la fine delle foglie secche e aggrapparsi a quella che sembra loro l’unica opportunità per sopravvivere. La guerra interessa la polveriera del medio oriente sin dal dopoguerra. I radicalismi islamici hanno sempre originato conflitti in tutte le aree a cavallo tra l’Anatolia e l’India come le Guerre del Golfo, quella in Iran, il conflitto tra Israeliani e Palestinesi e altri sanguinosi scontri come quelli che interessano l’Afghanistan dall’ottobre del 2001.
Il casus belli fu l’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre. L’allora presidente americano George W. Bush sostenne che sarebbe stato indispensabile un attacco preventivo per difendere l’umanità e catturare Osama Bin Laden il quale verrà scovato ed eliminato solo 10 anni più tardi.
La tensione non smette mai di scendere intanto e i dissapori aumentano tra americani, venuti con le proprie missioni di pace, e gli autoctoni che percepiscono gli stranieri quasi alla stregua di un invasore. Così nel 2021 è stato riproposto un piano di rimpatrio per gli eserciti della NATO e americani con conseguente riorganizzazione delle bande di talebani che hanno riacquisito progressivamente sempre più potere conquistando anche la capitale Kabul domenica scorsa. Hanno occupato il palazzo presidenziale, tenuto la loro prima conferenza stampa e messo in fuga l’ormai ex presidente Ashraf Ghani emigrato in Uzbekistan. Le dichiarazioni hanno fatto tremare tutto il pianeta. Un brivido che ha fatto trasalire tutto l’occidente e lo ha riunito sotto la medesima voce che reclama giustizia. Proprio quella che è sempre mancata alle brave persone costrette ad accettare soprusi a causa di una società che non è in grado di difendere se’ stessa, figuriamoci i propri cittadini. Pensiamo alle donne – che, in alcuni contesti spesso anche eccedenti il mondo islamico, vengono relegate oltre ai margini della società. Sono usate, vendute, commerciate come fossero spezie. Per non parlare della tratta del mercato di organi, di schiavi, e appunto delle donne, spesso costrette a una vita di prigionia più che di sudditanza o di subordinazione. Emblematica è diventata la figura della sindaca Zarifa Ghafari di 27 anni (la più giovane in Afghanistan) costretta a rintanarsi in qualche tugurio mandando un SOS per il terrore di essere trovata e uccisa dalle forze occupanti. “Verranno per le persone come me e mi uccideranno” – sono state alcune delle parole della giovane afghana da sempre in prima linea per difendere i diritti delle donne nei paesi islamici oltre a essere una delle attiviste più sgradite da parte dei talebani.
La missione originaria americana di esportare la democrazia anche qua non è stata compiuta a dovere perché non si è provveduto a risolvere un problema ancora più radicato nella cultura islamica: quello che concerne i diritti umani.
La verità è che la guerra iniziata 20 anni fa non ha dato i frutti sperati. Il conflitto che divampa in quella cortina di ferro è stato forse alimentato dagli “invasori liberatori” americani invece che soffocato? La guerra è la soluzione estrema per antonomasia, quella più radicale e sovversiva, che può trasformare le sorti di uno stato assoggettandolo o ottenendo una reazione contraria ancora più accanita.
Il diktat imposto dagli USA non ha fatto altro che accrescere l’odio anti capitalista, e ha contribuito ad aumentare il disordine pubblico. Sarebbe servita probabilmente una maggior cooperazione tra i governi di Washington e Kabul, magari anche qualche trattativa diplomatica per giungere a compromessi che togliessero consensi ai talebani.
Hannah Arendt scrisse un saggio nel 1958 intitolato “vita activa: la condizione umana” dove sosteneva che l’armonia politica delle polis greche era sancita dalla dimensione pubblica che riusciva a interessare il cittadino in prima persona e a coinvolgerlo in un dialogo produttivo per la comunità. Ed è questo che manca in Afghanistan; una vita attiva che possa avviare un dialogo costruttivo per migliorare il futuro dello stato. Tale vita attiva ha tre punti cardine: lavorare, operare e agire: ma come bisogna intervenire quando si ha a che fare con dei criminali disposti a tutto pur di restaurare un regime sopito da un ventennio? Sarà forse la guerra il metodo corretto di intervenire per instaurare una democrazia e quindi anche la pace? La verità è che, nonostante esistano casi come questi dove il conflitto armato appaia quasi come l’unica soluzione plausibile per supplire agli orrori che ogni giorno affliggono migliaia di donne, bambini e di civili, risulterebbe un provvedimento effimero e controproducente. Quindi sorge spontaneo interrogarsi su come sarebbe possibile creare un dialogo con soggetti che spogliano un essere umano della sua umanità pur di soggiogarlo e renderlo un mero ingranaggio funzionale alla propria macchina di distruzione. Si tratta in fondo di elementi che armano i bambini sin dalla tenera età per inselvatichirli e indottrinarli. Piccole vittime inconsapevoli, attratte dal “mondo dei grandi” per poi essere scaraventate in un sistema che lentamente lede l’empatia e la loro ingenua e acerba immaginazione.
La lotta per i diritti umani deve continuare. Nelle piazze, nelle università, nei luoghi di cultura. Or ora in Medio Oriente ci sono migliaia se non milioni di persone che reclamano a gran voce giustizia e libertà. Non è la fiamma più alta quella più importante, ma quella che brucia più a lungo. A discapito della torcia incandescente di odio e terrore da parte dei terroristi talebani, bisogna lanciare un appello che deve riecheggiare in eterno per mantenere invece accesa la propria vampa e dare un barlume di speranza a coloro che vivono nella costernazione e nel timore che il domani possa solo essere peggio di oggi. La guerra sicuramente sarebbe come greggio per la torcia di odio e terrore dei radicalisti. L’effetto scaturito sarebbe del tutto analogo a quello che accadeva alle navi arabe quando provavano a spegnere quelle terrificanti onde fiammeggianti dal celeberrimo fuoco greco bizantino con l’acqua ossia non fare altro che aggravare la situazione. Infatti provare a soffocare le fiamme utilizzando l’acqua non faceva altro che alimentare il fuoco, e accrescerne l’effetto distruttivo. Allo stesso modo risulta incoerente e futile il tentativo (già sperimentato) di ergersi a paladini dei diritti umani attraverso lo scontro a fuoco dal momento che la guerra è la cosa che più si discosta al mondo forse dai principi che si vogliono tutelare.
“A ogni azione corrisponde una reazione” diceva Newton e la reazione a un’invasione si concluderebbe con il solito pugno di mosche; ma la vera domanda da porsi è: “cosa faranno Biden e i sommi comandi militari europei? Faranno terra bruciata con la benzina della guerra o tenteranno con metodi meno coercitivi?”.
La risposta, purtroppo, non la deciderà nessuno di noi.
Dario Bartolucci Lupi