Monologo di un indifferente
Il clima, i diritti, le minoranze.
Che fatica star dietro a tutti.
Mi sembra che adesso si facciano problemi per tutto.
La gente si offende per cose leggere.
Non si può più scherzare su niente.
Cose che pensiamo, oppure che abbiamo sentito. Qualcuno una volta ha detto che il privilegio è invisibile a chi lo possiede. Se non ho un campo di grano devastato dalle alluvioni, non sentirò vicina le problematiche del cambiamento climatico. Se la mia amica non è trans, non vedrò le discriminazioni a livello lavorativo nei suoi confronti. Non saprò mai se è stata confinata a fare la lavapiatti invece che a servire in sala perché “la società non è pronta a vedere certe cose.” Se non sono nero, non mi accorgerò di quanto sia razzista la società europea rispetto all’assegnazione di ruoli a livello scolastico o lavorativo. Non capirò che è molto più probabile che io vada a raccogliere pomodori piuttosto che a studiare all’università.
In poche parole, se non sono escluso, non mi rendo conto dell’esclusione. E allora rido delle battute sarcastiche sui neri, sui gay e sugli ebrei. Perché “sono solo battute innocue.” Ma se fossi nero, gay o ebreo, forse non riderei così tanto: il dark humour fa ridere solamente perché riguarda gli altri. Ci distanzia con l’ironia da una situazione che ci rimbomba nelle orecchie tramite i telegiornali. Facciamo tutti molta fatica a metterci nei panni degli altri: ci hanno insegnato a concentrarsi sulla nostra esperienza, ed a prendere in considerazione la nostra storia prima di tutte le altre. In sé, questo non è sbagliato. Ma lo è se giudichiamo gli altri sulla base dei parametri che abbiamo stampati nel cervello solo perché abbiamo vissuto determinate esperienze. Ci costruiamo il nostro piccolo sistema di pensiero e fatichiamo ad ascoltare chi parla al di fuori dei nostri confini.
Cambiare fa male, proprio a livello psicofisico. Ci destabilizza, non sappiamo nemmeno più dove andare a sbattere la testa da quanto siamo persi. Noi indifferenti ci guardiamo bene dal cambiare. Del resto, perché cambiare? Non vale la pena cercare di essere migliori, dato che sono i peggiori che fanno strada e prendono i soldi. Non vale la pena parlare con questa persona dal pensiero così ottuso, tanto non cambierà mai idea. Non vale la pena essere gentili, tanto sono tutti stronzi.
Tutti i nostri “non vale la pena” sono radicati nel menefreghismo che ci rende invincibili rispetto ad ogni attacco. È per proteggere noi stessi che non ci esponiamo e decidiamo di fregarcene. Siamo sempre indifferenti rispetto ai mali di chi non conviene considerare, con la scusa del “tanto alla fine non cambia niente.” Ma non saremmo mai così indifferenti rispetto a nostri mali, perché vivono nel nostro cervello.
Noi diciamo di essere indifferenti, ma forse la nostra è solo una glaciale apatia. Scegliamo di non sentire le cose che ci farebbero sentire in colpa. Preferiamo i nostri trastulli egoistici ed i piccoli rancori, estremamente confortevoli perché ridotti e senza conseguenze. Evitiamo di prendere a cuore i disastri climatici, dei quali siamo responsabili, e continuiamo a comportarsi come nulla fosse. È abbastanza semplice fregarsene delle cose, una volta che si assorbe il meccanismo. Siamo a conoscenza di disastri, guerre, morti, migranti. Forse siamo addirittura in disaccordo con i no vax, ci danno fastidio le discriminazioni razziali, non condividiamo alcune prese in giro.
Ma sotto sotto preferiamo non dire niente a nessuno, nemmeno a quelle persone vicine a noi che sarebbero più propense ad ascoltarci. Tutto questo perché crediamo nel relativismo d’opinione, secondo il quale ognuno crede quello che vuole credere. E se è vero che ognuno di noi è più propenso ad ascoltare solo ciò di cui è già convinto, non ha senso esporci e dire la nostra.
Ma davvero crediamo nel relativismo d’opinione? O la nostra è solo paura di agire?
Lucia Bertoldini
Un la riflessione davvero molto interessante. Hai fatto un ottimo lavoro.
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L’autrice ringrazia!
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