A scuola, ogni 27 gennaio, in occasione della giornata della memoria, a prescindere dall’attività svolta, sia essa un incontro con un sopravvissuto, la lettura del monologo di Shylock o di un brano tratto da L’amico ritrovato, oppure la visione di un documentario sulla Shoah, i ragazzi alla fine dell’attività non pongono mai domande, rivelando curiosità. In effetti solo una domanda esce dalla loro bocca, ogni volta la solita: “Come si scrive Auschwitz”? Per anni ho creduto che fossero indifferenti al dolore degli altri, perfino a quello dei loro coetanei, completamente asettici e impermeabili. Così gli rispondevo un po’ piccato, dicendogli: “Come Nietzsche ma con la zeta alla fine”; oppure facendo lo spelling lentissimamente come a dei semi-analfabeti. Il fatto è che mi aspettavo, e mi auguravo, ogni volta domande toccanti, quelle stesse che sorgevano a me da ragazzo. Solo recentemente, ragionandoci più pacatamente e parlandone anche con colleghi, ho preso a interpretare la loro passività diversamente. I ragazzi non ti chiedono della discriminazione, del dolore, della disumanizzazione, ma fanno solo quell’unica domanda asettica e ortografica non per insensibilità, ma per un meccanismo di difesa. Quello che hanno visto, sentito, letto, deve rimanere solo un compito, qualcosa di circoscritto nel campo del dovere e nel tempo passato. Solo questa condizione gli può permettere di non farsi coinvolgere, finendo troppo lontano. È una barriera dalla parte più sensibile di sé, uno strumento, in qualche modo, utile ma, allo stesso tempo, pericoloso, perché nel non fare domande, per difendersi e non esporsi, si conformano, e la loro difesa non è più solo personale, ma diventa generazionale. Il punto è che non sempre i totalitarismi si presentano in camicia nera o facendo il passo dell’oca. Non sempre i luoghi di tortura, fisica o psicologica, hanno nomi consonantici impronunciabili. Per questo è essenziale porsele le domande, prendere posizione e imparare a svolgere, fin da subito, la propria parte. Non sempre la discriminazione, su basse razziale o ideologica, è qualcosa di lontano, relegato su uno schermo o una pagina bianca, che non tornerà, come vorremmo illuderci.
COME SI SCRIVE “AUSCHWITZ”
Dopo il film su Anna Frank i ragazzi
mi chiedono come si scrive “Auschwitz”
un’unica domanda
asettica e ortografica
che non mi crea imbarazzi
Non mi domandano
quante persone
stipavano in ogni vagone
se l’odio nasce dalla testa o dal cuore
o perché ti scambiavano il nome
con un numero di targa
come se fossi un fuoristrada
In ogni caso ad Auschwitz ci sono stato
All’entrata c’era un chiosco
dove vendevano wurstel
e la mia domanda
quella che a me sorgeva spontanea
era come si fa
ad addentare carne
in un posto così
Intanto dentro
la gente scattava foto a mitraglia
alcuni addirittura in posa
e uno perfino abbozzando un sorriso
Guardo i ragazzi
che hanno visto il film
e che nonostante le immagini
di cenere e sangue
non hanno proprio altre domande
A come Ancona gli dico
U come Udine
S come Savona
C come Como
H come hotel
W come Washington
I come Imola
T come Torino
Z come Zorro
Simone Consorti