Atto primo

Camille

Immagino sia liberatorio, essere liberi di essere nessuno. Se dimenticassi sul marciapiede un mozzicone di sigaretta, chi se ne accorgerebbe?
Sarei in grado di perdere il treno pur di fumare. Di guardare le porte chiudersi e le attese future. Ci sono posti, a Roma, che nessuno conosce. L’anno scorso, mi ricordo bene, ho portato Camille a teatro e tutto quello che abbiamo saputo dire alla fine è stato: “siamo ridicoli”.

Abbiamo riso tutto il tempo, io odoravo di colonia e lei di shampoo alla calendula. Aveva l’odore infantile della vita, di una storia non appena iniziata e che sa già di destinata alla fine.
Eravamo tornati a casa perché troppo ubriachi. L’ultima corsa del treno ci aveva sballottolato avanti e indietro, così ad un certo punto m’ero fatto cianotico per la paura. L’avevo guardata, allampanata sotto i led, e avevo pensato che forse l’amavo, che forse l’amore non faceva per me. Che nei miei cunicoli di solitudine sopravvive soltanto la polvere e la libreria di mio padre, eterna ricordanza di un abbandono troppo precoce.

“Se ti amassi”, le avevo detto quella sera “dovrei vivere altri trentaquattro anni per poter scalare da capo la tua schiena”.
Trentaquattro era l’età di Camille.

Nelle mie relazioni precedenti ero sempre entrato dallo stomaco, dai fondi di bottiglia come la muffa.
Che cosa ci trovassi di bello, proprio non lo so. So solo che tutte le mie donne erano state pelle e ossa, piccole macchie denigrate dalla vastità del loro mondo.
Quando subentravo a loro, precario e rincoglionito dal vino, mi rendevo conto di non amarle sul serio. Me ne piacevano i gesti, la curva dei palmi e dei seni. La loro routine mi annoiava e la poca consapevolezza delle loro scelte, e delle loro perdite, le rendevano come terracotta nella mia vita. Spesso, ad un certo punto, divenivamo un organismo unico: un ibrido umano che agli occhi degli altri era una coppia disposta a condividere valori e figli. Ma io avevo solo dolori di cui distribuire il peso, e loro delle laceranti mancanze d’amore che poi finivano per soffocarmi. 
Le lasciavo sentendole estranee, totalmente consapevole che le avrei rivolute indietro di lì a dieci giorni. Che avrei avuto bisogno di scopare, di essere incitato a fare la spesa, a prendermi cura delle mie cose perché, se fosse stato per me, avrei vissuto nel disordine, cosa che finiva comunque per accadere.  
Camille, invece, era una storia diversa. 

“Cosa pensa sia successo?”, mi chiede la Dottoressa mentre ci consuma il silenzio.
“C’è stata una sera in cui avevo una voglia matta di uovo. Nessun uovo in particolare, uno dei quelli magri del discount, ha presente?”
La Dottoressa annuisce.
“Me l’aveva regalato fresco una vicina di casa. Era un uovo perfetto: lo smalto bianco, la forma rotonda. Ho iniziato a convincermi che quell’uovo non fosse buono. L’ho immerso nell’acqua e fissato per dieci minuti, sperando si rivelasse fasullo. Invece l’uovo affondava. Così l’ho cotto, ne ho mangiato un boccone, e poi ne ho rovesciato l’intero contenuto dentro al cesso.” Faccio una pausa. “Sì, è andata proprio così”.
“Sta parlando di Camille?”
“No”, ribatto secco “sto parlando di un uovo”.

L’ultima volta che l’avevo vista era successo per sbaglio. Eravamo stati colpiti da un effetto allucinatorio, eppure di droghe non ne avevamo prese. Lei continuava a toccarsi i capelli con un certo compiacimento mentre mi si accapponava la pelle. Sapeva di calendula e novità, aveva cambiato i mobili e certamente buttato via le lenzuola vecchie. La schiena manteneva la stessa linea eretta eppure, sulla nuca, c’era un che di bieco; forse un pensiero.
Hai lasciato un vecchio di ottant’anni, continuavo a pensare. Uno di quelli che siede nei bar a fissare la gente, che partecipa alle feste scomposto e con discrezione pur di non lasciare niente al caso. Tu, invece, sei un caso. Anzi, forse un dubbio. 

“Come l’uovo” ribatte la Dottoressa.
“Sì, come l’uovo” confermo io.

Così m’era presa una tristezza incredibile ed avevo cominciato a guardare il suo profilo Instagram in cerca di una traccia di me. Un libro, un’ombra sul vecchio comodino, un paesaggio familiare. Un gatto. 

“È successo che semplicemente ci abituiamo all’inevitabile: la consapevolezza di ciò che abbiamo accanto. Che diventiamo simili a chi abbiamo odiato, con chi all’inizio ci ha insegnato ad amare. Che non compriamo più nuovi indumenti, che le schiene diventano stanche e le scapole sempre più strette per via dei pesi insostenibili. Che la ragazza carina di turno diventa un tranello di nervi e che sui mobili che non puliamo più si consuma la polvere”.

Dico questo e poi scappo. È finito il mio tempo di meditazione. 

Mi chiamo Emilio e ho quarant’anni appena compiuti. Faccio il contabile da sempre mentre in segreto leggo libri sui quali annoto appunti della mia realtà. 
Adesso sono in metro con le mani conserte sopra le ginocchia. Chissà lei come sta, se ricorda la forma magra delle mie scapole o il neo sulla clavicola. Digerisco la mia solitudine impacciato, dal finestrino antistante del vagone vedo solo una figura lunga e pallida. Dovrò passare a comprare le sigarette, penso, finché non la vedo con la testa china accanto alla mia, le nostre dita intrecciate.
Mi chiedo come facciano le persone ad andare via. Come ho fatto, io, tutte le volte? Poi penso alla dimestichezza e alla semplicità con cui la vita rimescola sempre le carte. Potrebbe andare meglio, ma persino peggio. 
In metro strimpellano l’ultima canzone, e la sento dire: 

non c’è niente che non vada, Emilio. Respira.

Francesca G.

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