Ambiguità del confine italo-sloveno
Nella Valle dell’Isonzo pochi parlano italiano. La zona è piena di scuole bilingue, e l’Italia è solamente oltre le montagne che separano il Friuli da questa vallata. Ma per i locali l’italiano è stato (e rimane) solo una delle tante lingue imposte al popolo sloveno, come il serbo-croato e il tedesco. Con i trattati alla fine della Prima Guerra Mondiale, l’Italia aveva ottenuto la zona della Valle dell’Isonzo e di Caporetto (Kobarid in Sloveno). Il racconto di questa storia potrebbe fermarsi qui; ma ogni conquista militare è anche una conquista culturale. Con il fascismo, nella zona fu vietato esprimersi in lingue che non fossero quella italiana. Vennero cambiati i nomi dei luoghi, come anche i cognomi ed i nomi della gente locale. Stokovaz diventò Fossati, il paese Most na Soči (letteralmente Ponte sul fiume Soča, tradotto in fiume Isonzo) diventò Santa Lucia d’Isonzo, il Monte Krn (letteralmente Monte Tagliato) diventò Monte Nero.
Nel museo di Kobarid si conservano memorie di quel periodo d’imposizione culturale italiana sulla popolazione slovena. “In questo negozio si parla italiano.” È l’insegna che risale a quel periodo, un’insegna che suona strana. Somiglia quasi ad una versione soft delle insegne naziste contro gli ebrei, e razziste contro i neri. In altre parole si sta dicendo: “Non c’interessa se tu sei sloveno, se siamo noi gli invasori della tua vallata. Qua si parla italiano. Perché l’italiano è la lingua e la cultura del vincitore.” Quando mai ci si aspetta che anche lo stato italiano ha portato avanti un’esclusione basata su differenze culturali con una zona che era stata annessa da pochissimo al Regno d’Italia?
L’aurea che aleggia intorno a Caporetto agli occhi di un italiano è quella di una sconfitta, in qualche modo gloriosa o almeno glorificata. Quando si arriva nella vallata, si nota subito un monumento, assurdo ed enorme, che sorge sulla collina vicino ad una piccola chiesa, che forse prima era un forte. Non si sa con certezza la storia più antica di questo insediamento. Quello che si sa è che quel monumento è stato fatto costruire da Mussolini durante il ventennio fascista, in memoria dei caduti della battaglia di Caporetto. Ricordare un momento così importante della guerra appena trascorsa avrebbe sicuramente guadagnato l’approvazione dei veterani sopravvissuti e delle loro famiglie. La gente di Kobarid si sarebbe amalgamata con la popolazione italiana, e l’identità locale si sarebbe persa col tempo.
C’è dell’ironico nel leggere la versione italiana della descrizione del monumento. Si legge che tutti i caduti qui commemorati e sepolti sono parte dell’esercito italiano: un onore per la patria. Sicuramente non sarebbe stato conveniente per l’ideologia fascista ricordare che probabilmente tra le migliaia di quei corpi si trovano non solo italiani ma anche sloveni, austriaci, tedeschi, ungheresi ed altri. Ovviamente, nella versione in sloveno ed in tedesco della descrizione del monumento la storia è stata raccontata in una maniera diversa e non si parla di soli “caduti italiani.” Sono piccolezze. Come lo è il fatto che il monumento è tuttora sotto la cura dell’Esercito italiano, come lo è la Via Crucis che si percorre per raggiungerlo. A quanto raccontano i locali, il governo italiano s’era addirittura spinto a voler comprare il territorio della collina di Kobarid. Il piccolo comune sloveno si era rifiutato e il suolo sui cui poggia il monumento è tuttora sloveno.
La situazione di Caporetto/Kobarid è quella di tantissimi posti dove la storia sembra aver lasciato spazio a una sola versione dei fatti, e una sola prospettiva. È la storia di una battaglia persa ma glorificata dal fascismo per sottolineare la forza e l’onore dell’esercito italiano. È la storia dei vincitori, e su questo non ci sono dubbi. Ma fino a quando siamo disposti a raccontare solo la loro? I professori del 2030 parleranno dell’etnia slovena a scuola quando parlano della battaglia di Caporetto e dell’annessione della Valle dell’Isonzo all’Italia fascista?
Dobbiamo smettere di dare voce ad una Storia sola.
Lucia