E adesso?

Qui tutti gli altri 90 film della Lista

Ultima puntata della Lista. Vi lascio con dieci titoli che ci portano fino al 2018, vale a dire solo tre anni fa. Delle parti da compilare, quelle più recenti sono senza dubbio le più “pericolose”: capita che un film che a caldo sembra importantissimo, si riveli col tempo poca cosa. Per questa ragione sono stato attento a fare scelte acroniche: una sola opera, Un affare di famiglia, risente dello zeitgeist contemporaneo. Faccio conto che, collocandolo, come vedrete, al vertice di un percorso “interno”, possa mantenere la posizione. Ma se così non fosse, poco male! La Lista, nata il 3 ottobre 2013, ha già conosciuto 29 modifiche, fra cui una “rivoluzione” a dicembre 2020. Adesso che ci penso, Accadde una notte (Frank Capra, 1934), pubblicato nella prima parte, nel frattempo ha lasciato il posto al divertentissimo Susanna! (Howard Hawks, 1938): una sorta di cambio interno alla screwball comedy. Molti altri sono avvenuti prima della pubblicazione della relativa scheda. Del resto, 100 posti sono pochi, e un po’ per mancanza di spazio, un po’ per scelte “di gusto”, ci sono delle sanguinose mancanze. Penso a Fritz Lang, il cui M – Il mostro di Düsseldorf (1931), o in alternativa Dietro la porta chiusa, 1947), è sempre lì lì per entrare. Ma pure a Marcel Carné, Max Ophüls, Luchino Visconti, John Cassavetes, Krzysztof Kieslowski!
Se siete arrivati fin qui, mi complimento con voi, e vi ringrazio. È stato un bel viaggio. Continuerà? Forse, su altri binari. La mia collaborazione con Bottega di Idee termina oggi. Ma se è vero che nulla ha inizio, nulla ha fine e tutto si trasforma, chissà… Per ora, largo ai giovani!

LA CITTÀ INCANTATA
(Sen to Chihiro no kamikakushi, Giappone, 2001; col. 125’) di Miyazaki Hayao.
In viaggio verso una nuova vita, la piccola Chihiro sosta per caso in una città incantata governata da una malvagia strega. Per riscattare i genitori, trasformati in maiali, dovrà lavorare al suo servizio.
PERCHÉ VEDERLO
Quand’ero bambino, negli Anni Ottanta, i cartoni animati giapponesi erano sinonimo di bassa qualità (eppure, quanto ci piacevano!). In realtà l’animazione nipponica raggiunge vertici assoluti. La città incantata è senza dubbio il film manifesto sia del suo autore, Miyazaki Hayao, sia del leggendario Studio Ghibli. La durata suggerisce un target di pubblico inusuale alle nostre latitudini, e così i riferimenti alla mitologia shintoista. Eppure tutta la famiglia può goderne, e non per una visione soltanto. Se questo non è un pregio…
DOVE TROVARLO 
OPAC Sondrio.
…E SE VI È PIACIUTO
Sarò sincero: La città incantata non è il mio film Ghibli preferito. Perché sta nella Lista allora? Beh, perché il suo valore è assoluto, così come la sua importanza. Ed è la finestra migliore sull’animazione giapponese. Ma se devo scegliere cosa vedere, vado su altri tre titoli: Il mio vicino Totoro (1988) e Si alza il vento (2013), sempre di Miyazaki (e se avete la fortuna di visitare il Museo Ghibli a Tokyo, sperate che proiettino il corto Pandane to Tamago-hime, del 2010), e soprattutto La storia della Principessa Splendente (2013) di Takahata Isao. Al di fuori dello Studio Ghibli, provate con Your name. (2016) di Shinkai Makoto.

FERRO 3 – LA CASA VUOTA
(Bin-jip, Corea del Sud/Giappone, 2004; col., 88’) di Kim Ki-duk. Con Lee Seung-yeon e Lee Hyun-kyoon.
La curiosa storia d’amore tra Tae-Suk, un ragazzo con l’abitudine di occupare case momentaneamente disabitate, e Sun-Hwa, vittima di un marito violento.
PERCHÉ VEDERLO
In bilico tra squarci di altissima poesia e momenti di inenarrabile violenza, quello del compianto Kim Ki-duk è uno dei pochissimi punti di vista del tutto originali che il cinema ci abbia offerto nel nuovo millennio. Ferro 3 è il suo capolavoro, e in un certo senso il suo film più estremo, che anziché basarsi sui dialoghi (i due protagonisti sono sostanzialmente muti) si regge su immagini di intenso lirismo e su una canzone (Gafsa, di Natacha Atlas) indimenticabile. Uno stile essenziale, minimalista. O, più semplicemente, meraviglioso.
DOVE TROVARLO 
OPAC Sondrio.
…E SE VI È PIACIUTO
La casa e la vendetta sono due dei temi dominanti del cinema coreano. Per il primo, non perdetevi il confronto con il pluripremiato Parasite (2019) di Bong Joon-ho. Per il secondo, Old Boy (2003) di Park Chan-wook.

A HISTORY OF VIOLENCE
(USA/Germania, 2005; col., 96’) di David Cronenberg. Con Viggo Mortensen e Maria Bello.
Dopo aver sventato in modo alquanto spettacolare una sanguinosa rapina nel suo locale nell’Indiana, il tranquillo barista Tom Stall viene raggiunto da un gruppo di mafiosi di Philadelphia, che però sostengono che si chiami in realtà  Joey Cusack.
PERCHÉ VEDERLO
Il canadese David Cronenberg è da sempre uno dei maestri dell’horror americano, con una libertà formale e una franchezza che gli derivano direttamente dal non essere born in the USA. In questo A history of violence, tratto da un graphic novel di John Wagner e Vince Locke, mette le sue ossessioni per la carne e il doppio a servizio di una riflessione inquietante sul tema del giustiziere, che lo pone al vertice di un’ideale trilogia con Sentieri Selvaggi (John Ford, 1956) e Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976). Con una sostanziale differenza: se Ethan Edwards e Travis Bickle erano dei reietti, Tom/Joey è uno stimato membro della comunità, con moglie e figli. E il bellissimo finale, muto, di certo non aiuta…
DOVE TROVARLO 
OPAC Sondrio.
…E SE VI È PIACIUTO
Come approfondire il tema, già l’ho detto, e in tre occasioni… Forse si potrebbe integrarlo col misconosciuto B-movie italiano La mala ordina (1972) di Fernando di Leo. Di Cronenberg sono imprescindibili Scanners (1981) Videodrome (1983), La mosca (1986, ma se siete impressionabili lasciate perdere) e M Butterfly (1993).

VALZER CON BASHIR
(Vals im Bashir, Israele/Germania/Francia, 2008; col., 86’) di Ari Folman.
Dopo aver ascoltato il racconto dell’incubo ricorrente di un ex commilitone, il regista Ari Folman si rende conto di avere rimosso ogni ricordo del suo servizio militare in Libano. Comincia così una serie di incontri per cercare di ricostruire il passato.
PERCHÉ VEDERLO
A leggere la trama, si direbbe il classico documentario di approfondimento sui conflitti mediorientali. E in buona sostanza, lo sarebbe pure, se non si trattasse di un film di animazione. Attraverso un tratto chiarissimo, per quanto estremamente stilizzato, Folman riesce a condurre lo spettatore in uno dei buchi neri della storia contemporanea, il massacro di Sabra e Shatila, perpetrato ai danni dei profughi palestinesi dai falangisti cristiani libanesi con la complicità dell’esercito israeliano nel settembre 1982. L’animazione ha un effetto straniante? Tutt’altro: Valzer con Bashir è fra i più efficaci film sull’argomento. Una gemma inestimabile che mostra una volta di più la forza del Cinema. 
DOVE TROVARLO 
OPAC Sondrio.
…E SE VI È PIACIUTO
Va da sé che i documentari di animazione siano una rarità assoluta. Ma ce n’è uno sul genocidio cambogiano che equivale, e forse supera, il film di Folman: L’immagine mancante (2013) di Rithy Pahn. Oppure, cambiando argomento, It’s Such a Beautiful Day (2012) di Don Hertzfeldt, sulla malattia mentale.

TEZA
(Etiopia/Germania/Francia, 2008; col., 140’) di Haile Gerima. Con Aaron Arefe e Abiye Tedla.
Anberbe, giovane etiope emigrato in Germania per studiare medicina e divenuto dottore, torna in patria. La trova dilaniata dalla dittatura di Menghistu.
PERCHÉ VEDERLO
Guardare Teza è come seguire tre storie diverse: un film introspettivo sulle sofferenze di un uomo sradicato che non si sente più a casa da nessuna parte; un film politico sull’impegno e il fallimento di un’intera generazione; un film antropologico sui cambiamenti post-coloniali avvenuti in Etiopia. E tutto questo con una potenza narrativa e registica degna del miglior Anghelopoulos (ma con meno intellettualismi). Un po’ come se avessero mixato l’epica de La recita con rabbia di La nera di… e la magia ancestrale di Yeelen. Un capolavoro sorprendente, e come spesso avviene, mal distribuito.
DOVE TROVARLO
OPAC Sondrio.
…E SE VI È PIACIUTO
Oltre ai titoli sopracitati, potreste provare con un altro bellissimo film di Haile Gerima, Il raccolto dei tremila anni (1974). Altrimenti, per rimanere sul cinema militante, spostatevi nel Brasile de Il dio nero e il diavolo biondo (1964) di Glauber Rocha.

IL NASTRO BIANCO
(Das weiße Band – Eine deutsche Kindergeschichte, Austria/Germania/Francia/Italia, 2009; BN, 144’) di Michael Haneke. Con Susanne Lothar e Ulrich Tukur.
In un tranquillo villaggio tedesco, fra il 1913 e il 1914, cominciano ad accadere inquietanti incidenti che presto sfociano in atti di violenza insensata.
PERCHÉ VEDERLO
Approdato al cinema in età matura, l’austro-tedesco Michael Haneke si distingue da subito per la sua riflessione su violenza e rapporti familiari. Nel 2009 vince la sua prima Palma d’Oro a Cannes con questo Il nastro bianco, che ne rappresenta l’apice, sia a livello contenutistico che formale. Rinunciando da subito a ogni forma di suspence (il sottotitolo originale, Una storia di bambini tedeschi, neutralizza ogni possibile deriva thriller), il film svela il suo vero scopo: mostrarci come i prodromi del nazismo non si trovino solo nella disfatta della Prima Guerra Mondiale, ma anche in alcune estremizzazioni dell’educazione luterana, e quindi nel profondo della cultura tedesca. Un’opera tetra, glaciale, profondamente disturbante (viene naturale il raffronto con la filmografia di Stanley Kubrick) ma, a suo modo, necessaria. E il bianco e nero ad alto contrasto scelto dal regista è uno dei più belli di sempre.
DOVE TROVARLO 
OPAC Sondrio.
…E SE VI È PIACIUTO
Haneke non è un regista “difficile”, ma di sicuro molto scomodo. Di suo non perdetevi Funny Games (1997) e Amour (2012, altra Palma d’Oro).

P’TIT QUINQUIN
(Francia, 2014; col., 206’) di Bruno Dumont. Con Alane Delhaye e Lucy Caron.
Un paesino nell’estremo Nord della Francia è sconvolto da una serie di grotteschi omicidi. La Polizia brancola nel buio, mentre un gruppo di ragazzini sembra condurre un’indagine parallela…
PERCHÉ VEDERLO
Nato come miniserie televisiva in quattro episodi, e quindi all’estremo confine di questa Lista, è però girato a mo’ di film unico da Bruno Dumont, autore controverso che firma qui il suo capolavoro. Trama “improbabile”, attori improvvisati, poesia sbilenca e, sorprendentemente, un umorismo folle degno dei Monty Python. Magnetico e inclassificabile (thriller? drammatico? commedia?).
DOVE TROVARLO
Online, sottotitolato.
…E SE VI È PIACIUTO
Nelle oltre tre ore di P’tit Quinquin c’è tutto e il contrario di tutto: I segreti di Twin Peaks (1990) di David Lynch, Satantango (1994) di Béla Tarr, Il Nastro Bianco (2009) di Michael Haneke, Mouchette – Tutta la vita in una notte (1967) di Robert Bresson, I 400 colpi (1959) di François Truffaut. E poi il teatro della crudeltà di Artaud, quello dell’assurdo di Ionesco e Beckett. E molto altro ancora…

IL FIGLIO DI SAUL
(Saul fia, Ungheria, 2015; col., 107’) di László Nemes. Con Géza Röhrig.
Sonderkommando in un non precisato campo di sterminio nazista (ma si capisce che si tratta di Auschwitz), l’ungherese Saul assiste alla miracolosa sopravvivenza di un ragazzino alla camera a gas. Questi viene poi ucciso da un medico delle SS e Saul decide di ridare un senso alla propria esistenza sottraendone il corpo ai forni crematori.
PERCHÉ VEDERLO
Punto di non ritorno della fiction sulla Shoah, Il figlio di Saul, opera prima di Nemes, già assistente di Béla Tarr, affronta il nodo dell’irrappresentabilità risolvendolo con una trovata geniale. La macchina da presa è sempre puntata su Saul, con diaframmi molto aperti e lunghi piani sequenza. Ne consegue che tutto ciò che sta attorno al protagonista risulti sfocato. Ma per il cervello umano la sfocatura è un ostacolo non insormontabile. Quindi, se da un lato il regista si sottrae alla spettacolarizzazione oscena del campo di sterminio, dall’altro l’occhio dello spettatore è spinto a una decodifica che è sì straziante, ma non insostenibile. Guardare senza vedere: una prova durissima, per un film che ha trovato da subito il suo posto nella storia del cinema.
DOVE TROVARLO 
OPAC Sondrio.
…E SE VI È PIACIUTO
La tecnica della sfocatura è stata messa a punto da Nemes nel cortometraggio With a Little Patience, del 2007. Per comprenderne però appieno la valenza, vale la pena fare un parallelo con i film principali che affrontano la rappresentazione dei campi di sterminio: Kapò (Gillo Pontecorvo, 1960), La passeggera (Andrzej Munk, 1964), Schindler’s List (Steven Spielberg, 1993).

TWIN PEAKS
(Twin Peaks, USA, 2017; col., 1014’) di David Lynch. Con Kyle MacLachlan.
Venticinque anni dopo gli eventi narrati nella serie I segreti di Twin Peaks, l’agente speciale Dale Cooper è ancora intrappolato all’interno della misteriosa Loggia Nera, mentre il suo pericoloso döppelganger si aggira nel mondo reale.
PERCHÉ VEDERLO
Caso limite di contaminazione tra linguaggio cinematografico e televisivo (e a tutti gli effetti un unico film diviso in diciotto segmenti), Twin Peaks non è propriamente il seguito del cult del 1990, ma molto altro: è il catalogo (non?) ragionato dell’universo demiurgico di David Lynch, tra cinema, musica, arti visive e meditazione trascendentale. Dichiarato nel 2017 dai prestigiosi Cahiers du Cinema miglior film dell’anno (non senza polemiche), e nel 2019 addirittura del decennio, è quanto di più visionario e per certi versi sconvolgente sia transitato sugli schermi televisivi (e non). La trama c’è, ed è anche molto complessa, eppure non è la cosa più importante: contano molto di più le suggestioni visive (cfr l’ottava parte, Gotta light?, capolavoro nel capolavoro) e una riflessione, profonda e consapevole su Tempo e Morte. Si può vedere senza conoscere la serie? Sì, senza dubbio. Ma in fondo, perché privarsene?
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OPAC Sondrio.
…E SE VI È PIACIUTO
L’opera di Lynch la si odia, o la si ama. Io, che la amo moltissimo, ho più volte cambiato i suoi film all’interno di questa Lista. In precedenza sono passati Eraserhead (1977), The Elephant Man (1980), Una storia vera (1999), Mulholland Drive (2001) e il seminale INLAND EMPIRE (2006). 

UN AFFARE DI FAMIGLIA
(Manbiki Kazoku, Giappone, 2018; col., 121’) di Kore’eda Hirokazu. Con Lily Franky e Sakura Andō.
Una famiglia di taccheggiatori trova per strada una bimba abbandonata. Nonostante le condizioni di indigenza in cui vivono, decidono di prendersene cura, ridonandole la felicità perduta. Ma…
PERCHÉ VEDERLO
In un decennio di innovazioni stilistiche e formali continue, il cinema di Kore’eda va in orgogliosa controtendenza. In apparenza il suo stile è molto classico, rifacendosi all’austerità compositiva dell’immenso Ozu. La sua innovazione è però narrativa, nel dissezionare quasi chirurgicamente una famiglia disfunzionale sì, ma felice, almeno in apparenza. L’approccio passa con una facilità disarmante dai richiami chapliniani alle disamine gelide dei vari Kubrick e Haneke. E il miracolo è che il film è così bello che quasi non ce ne accorgiamo. Sarà il tempo a dirlo, ma ci sono tutti gli indizi che portano a credere che Un affare di famiglia possa essere una nuova pietra miliare del cinema giapponese.
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OPAC Sondrio.
…E SE VI È PIACIUTO
La famiglia è un argomento centrale nella cinematografia nipponica, e da come la si approccia si può quasi misurare la temperatura della società. Vale quindi la pena collocare il capolavoro di Kore’eda al termine di un mini ciclo che, cominciando con l’immortale Viaggio a Tokyo (Ozu Yasujirō, 1953), passi poi per il bellissimo Dodes’ka-den (Kurosawa Akira, 1970), l’allucinante La vendetta è mia (Imamura Shōhei, 1979) e il film di animazione I miei vicini Yamada (Takahata Isao, 1999).

Mattia Agostinali

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