Samuele
«Vent’anni fa viaggiavo alla velocità della luce per andare via. Avevo un cane, un terreno poco fuori Trieste; una roba così lontana che a immaginarla non ci riusciresti nemmeno. Me ne stavo tutto solo a fumare Benson Gialle.
Scolpivo lì, sì. Avevo una stanza piena di busti, una serie di cose tutte da buttare. A dir la verità, mi sono sempre venduto male. Ho passato l’adolescenza credendomi artista fino a che non ho capito che non avrei venduto un cazzo. Ho fatto il paesaggista. Mi sono innamorato a Lamezia Terme a ventitré anni per la prima volta.
Avevo deciso che gli avrei dato il fegato, se me l’avesse chiesto. Tutto, meno che il cuore. Lo vedevo arrivare tra gli acini su un macinino sgangherato, io d’istinto mi toccavo le spalle per sentirmi ancora tutt’intero. Lo guardavo sedersi sopra un accatto da discarica all’aria aperta. Mi chiedeva sempre di disegnarlo; io non lo facevo. Non so perché tutti pensano sia facile fare le cose che ci riescono meglio con le persone che ci vogliono bene. Per me non è così. Ho provato per anni. Allora mi sedevo in salotto col mio quaderno di schizzi e cominciavo, mentalmente, a lavorare.
Il problema era che l’amavo, e le cose reali sono difficili da reinventare. Le dediche sono giuste solo per i grandi o i disperati.
Se non mi fossi trasferito forse avrei passato la mia vita con lui. A conti fatti, chissà come sarebbe andata. Immagino la mia storia come una mappa; così quando sono triste arrivo alla conclusione che certe scelte non le avrei mai fatte.
Passata la fame di strade, m’era rimasta soltanto una grande tristezza. A Rovigo iniziai a lavorare in fabbrica. Le mani mi facevano troppo male per costringermi a disegnare. Mia figlia aveva iniziato a gattonare e io a bere sempre più spesso. Dieci anni così, mio caro, eh sì. La bellezza della casa e di mia moglie erano diventate il mio più grande dispiacere perché non solo ero infelice, ma infelice con il senso di colpa.
Se potessi raccontare tutte le cose belle di quegli ultimi anni, ti cederei il fermo immagine di noi tre in cascina di fronte al camino. Non ne ricordo altre. Avevo ceduto le mie strade per uno spazio nel mondo, eppure di bivi ce n’erano stati infiniti. Poi, un certo giorno, era successo che mia figlia era diventata grande e mia moglie ne aveva voluta un’altra. La seconda, ti racconto questo aneddoto, amava le api. Così un giorno tornai a casa e mi ritrovai sia la più grande che la più piccola a piangere. Chiesi a Marzia che cosa fosse successo, e lei mi rispose che la prima, per seguire la sorella, s’era presa tre pizzichi sulla guancia e che sull’altra non ce n’era neppure l’ombra.
Quando scoprimmo che era malata, non riuscimmo a crederci. Fu un duro colpo che Marzia non superò mai. Io passai i primi mesi nascosto, dovunque purché lontano da casa. Persi i sensi un paio di volte per la stanchezza e mi presi un fine settimana che la piccola era in ospedale per tornarmene dalle parti mie. Cercavo ancora Valerio perché soltanto lui mi avrebbe fatto piangere, eppure non volevo. Era solo un pretesto per vedere cosa avrei pensato della mia vita di allora. Eravamo fatti di segatura. Un abbraccio, e sarebbe cascato in pezzi tutto.
Mia figlia moriva e ventitré anni dopo sua sorella si sarebbe sposata. Io mi sarei allontanato dalla villa del matrimonio per fare due passi in campagna; avrei visto uno sciame di api disporsi accanto ad un alveare. L’odore del campo era acre, io finalmente vecchio. Avrei levato un sospiro profondo, e tutto sarebbe passato.
Adesso, caro mio, cosa vuoi che ti dica? Non ne ho di paura.
Tutta questa tragedia per un attimo di pace, per un ricordo che dura una vita.»
Il corridoio buio era delineato da centinaia di busti, statue, i due uomini sedevano attorno al tavolo con un bicchiere di vino scadente tra le mani. Si scrutavano le rughe: nessuno aveva saputo mai niente dell’altro prima di quel momento. Adesso facevano i conti, un calcolo geometrico, un’analisi vettoriale che amalgama il tempo come polvere: chi era stato il più crudele dei due? Chi, con la propria vita, aveva aperto le danze?
Da dietro le spalle di Samuele comparve prima un pianoforte, poi un’orchestra. Quattro piccoli uomini si misero in postazione. Sembrava nel complesso la migliore delle allucinazioni, ma nessuno osava lamentarsi. Poi il traghettatore sparì oltre le ombre del corridoio e si fece silenzio.
Samuele si guardò le mani callose e si rese conto d’essere improvvisamente giovane.
A distanza di pochi anni dalla sua morte, la moglie avrebbe venduto tutti i suoi busti per poche migliaia di euro, vide la scena chiaramente. Un avvocato li avrebbe acquistati e disposti lungo il corridoio asettico, perfettamente simmetrico della sua casa. Sua figlia gli avrebbe dato un secondo nipote con indosso il suo nome. Valerio l’avrebbe guardato tutti i giorni, immaginando tra i ricordi un suo busto. Il corpo che adesso portava i segni del tempo, fermo a vent’anni tra i colpi decisi di uno scalpello.
Samuele aveva fatto centinaia di lavori e amato poche volte, raramente. Aveva costruito una vita che adesso era un mosaico di immagini nel buio, il museo delle sue ceneri. Non era dispiaciuto all’idea di morire, era soltanto spaventato dalle tenebre. Come se tutta l’angoscia che aveva provato nella sua vita, tutta la frenesia e poi la stanchezza si fossero fermate lì, condensate in quella stanza allucinogena. Felicità e amarezza, nessuna età.
Si alzò dalla sedia, si tolse la giacca dalle spalle e lo appese sullo schienale. S’incamminò silenziosamente lungo il corridoio. Sentì il profumo di acini, l’odore dei campi. Vide le api e si sentì Aristeo.
Morì, così, commosso.
Francesca G.